Il pesciolino di Nicolae

Quando sono risalito sul treno, avevo il pianto negli occhi. Le lacrime dapprima trattenute scendevano liberamente lungo il viso. Avevo voglia di piangere, ma cercai con la mente i particolari meno dolorosi di quella giornata. Cercai gli odori, le parole strane, il suono di quella lingua strana. La litania dei Rom, il sapore del caffè alla turca e tutti quei colori sui piloni che mi avrebbero fatto compagnia per tutta la durata del turno.

Avrei voluto portare con me Nicolae tutta la mattina. Magari glielo dico una volta al padre, ma ero sicuro che non lo avrebbe mai permesso. Troppa paura anche da quella parte, di perdere l’unico bene rimastogli. Allora magari li invito insieme, pensavo mentre i miei pensieri si perdevano tra il ferro delle rotaie. Ognuno andava per la sua strada ed era quasi giusto così. Un unico punto di incontro era già tantissimo, anche se solo a metà strada per un caffè alla turca. Non avrei potuto pretendere di più.

Alessandro, il capotreno, si soffio il naso cercando di nascondere le lacrime, non riusciva a parlare. Ma in quella circostanza, dopo quelle storie non c’erano parole da aggiungere. C’era solo da capire. E noi avevamo capito. Avevamo imparato un termine Rom. Il più drammatico dei termini della lingua Rom. Porrajmos. Stermino.

Sospirai asciugandomi le lacrime ed infilai una mano in tasca. Tra le dita un oggetto morbido e un poco scivoloso mi sorprese la mano che cercava di capire. Lo tirai fuori. Era il pesciolino di Nicolae che in qualche modo la mattina era riuscito a farlo scivolare nella tasca. Lo stupore mi bloccò le gambe, mi girai per raggiungerlo con gli occhi ma era già lontano. In qualche modo era riuscito a capirmi e a dirmi portami con te o forse l’aveva fatto solo per essere sicuro di rivedermi, o magari era proprio un regalo. Fatto sta che quel giorno non riuscii più a tirar fuori la mano dalla tasca e guidai il treno fischiando e rifischiando convinto che lui potesse sentirmi ogni volta che passavo, sapendo che era a lui che fischiavo e che lo salutavo.

di Claudio Caldarelli

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