Lotto 285 – capitolo trentuno

“Fischia il vento. E’ già Domenica:

l’avanzata come va?

Sono fermi. E’ ancor Domenica:

Roma sempre sta di là.”

Dalla filastrocca Napoli 1944
di Mario Soldati e Gabriele Baldini

   Dopo qualche tempo, sfogliando alcuni libri rinvenni in un racconto di uno scrittore americano, precursore della narrativa del mistero, la notizia che quella terribile usanza veniva praticata in altre parti del mondo, soprattutto nei manicomi e soprattutto in Francia, secondo “Il sistema del dottor Catrame e del professor Piuma”, descritto dal narratore, non si sa quanto fantasticamente, in un racconto con quel titolo, esattamente cent’anni orsono: “I custodi, dieci di numero, subito sopraffatti, erano stati ben coperti prima di catrame e poi di piume, e rinchiusi nelle celle sotterranee.”. Questa “cura”, come dice il direttore del manicomio in quel terribile finale, “era semplice e pulita, e non dava noie, di nessun genere.” Mi pareva di sentire le parole degli ideatori ed esecutori della Soluzione Finale.

   In un’altra fonte, questa volta storicamente documentata, che riguardava la storia degli Stati Uniti d’America, quella dei nostri alleati che si battevano per la nostra liberazione dal giogo nazista, scoprii dei  fatti che purtroppo venivano a sovrapporsi all’eroismo di quei soldati, di ogni provenienza e colore, che operavano al nostro fianco. Erano i fatti che riconducevano all’America degli Stati del Sud, dove la segregazione e la persecuzione razziali erano ancora in atto ai nostri giorni, ad opera soprattutto di quella setta di “incappucciati” chiamata Ku Klus Klan. Anche le loro azioni contro la comunità nera prevedevano il ricorso a quella indegna pratica. Pratica che poteva portare alla morte o addirittura alla profanazione di quei corpi che già avevano subito altre torture e sevizie e che li avevano condotti alla morte.

 Ma dopo aver fatto quelle considerazioni mi misi a immaginare quanti e quali rimorsi di coscienza fossero potuti passare per la mente del povero aviere, lui che si sentiva corresponsabile, anche se involontario, di quell’aggressione e quanto più grande fosse stata l’espiazione per quella colpa cadendo in battaglia da eroe.

   Mi sovvenne allora  alla mente quell’altro militare, un tenente del Regio Esercito che aveva perso la vita saltando su una mina nel tentativo di oltrepassare la linea del fronte, quella linea che io non attraversai per puro caso, tornandomene indietro. Veniva dalla città partenopea dove si era incontrato con altri noti emissari  dei servizi, scrittori come lui, ed aveva partecipato agli  ultimi sprazzi di baldoria, attendendo, come tanti, la conquista della capitale da parte delle truppe alleate. L’avevo intravisto nei momenti  concitati che seguirono l’armistizio partecipare alla battaglia a difesa delle porte della città, con il mitra in una mano e la bandiera tricolore nell’altra, lui ufficiale dell’esercito che aver avuto incarichi di prestigio a Torino e in Francia e che per caso si trovava a Roma. Era, seppi più tardi, uno studioso di letteratura tedesca, traduttore e poeta anch’egli.

Così scriveva a un amico prima di partire per il Sud:

   “Carissimo, dopo aver fatto per qualche settimana il diplomatico e per due giorni il “pistolero”, la cosa migliore che io possa fare è di andare nel Sud, per cercare di mettermi in contatto con gli Inglesi e informarli della situazione che si sta sviluppando a Roma. Ti prego di voler comunicare questa mia decisione agli altri.”

   Ed al fratello:“Se non dovessi tornare non mostratevi inconsolabili. Una delle poche certezze acquistate nella mia esperienza e che non ci sono individui insostituibili e perdite irreparabili, Un uomo vivo trova sempre ragioni sufficienti di gioia negli altri uomini vivi, e tu che sei giovane e vitale hai il dovere di lasciare che morti seppelliscano i morti.”

   Quanti rimpianti doveva aver provato il fratello alla notizia della sua morte, lui che aveva ricevuto quell’ultima lettera nella quale lo rassicurava, ma anche gli prospettava la possibilità di cadere in battaglia, e lo esortava ad  essere forte, lui che forte lo era stato nella sua breve vita di studi e di impegno militaresco, forte come poteva essere la gente sarda dalla quale proveniva.

  Avevo nella mia  biblioteca  alcuni volumi nei quali compariva come traduttore dal tedesco di opere cui sarei stato legato per molti anni. Principalmente mi colpì il suo amore verso uno dei più grandi poeti del primo romanticismo tedesco,  Heinrich von Klest, e mi saltarono agli occhi alcune analogie nella vitadei due appassionati letterati. Anche Kleist proveniva da una nobile famiglia di militari e, non ancora quindicenne,  entrò nel Reggimento della Guardia dell’esercito prussiano. Ma non si sentiva portato per la vita militare e, in una lunga lettera al suo istitutore, “non gli pareva possibile conciliare i doveri dell’uomo con quelli dell’ufficiale.” Ma qualche anno più tardi, per l’ansia di combattere, tentò di mettersi addirittura al servizio dell’esercito napoleonico (cosa che poi ripudiò diventando acerrimo nemico dell’Imperatore), e così scriveva alla sorella: “Sta’ tranquilla, tu sublime, morirò la bella morte delle battaglie. Ho lasciato la capitale di questo paese, mi sono trasferito fino alla costa settentrionale, mi arruolerò nell’esercito francese, questo passerà presto per mare in Inghilterra, la rovina di tutti noi è in agguato sopra i  mari, io esulto in previsione del sepolcro infinitamente stupenda. Oh amata, tu sarai il mio estremo pensiero!”. Ma le analogie tra le due vicende non finiscono qui. Kleist poneva fine alla sua vita travagliata, “la più tormentata che uomo abbia mai vissuta”, assieme alla sua donna, in una fredda giornata di novembre del 1811, sulle rive del Wannsee e il nostro commilitone trovava la morte sulle rive del Garigliano più di un secolo dopo, forse per voler suggellare e dare un ulteriore significato al suo  sacrificio sul campo di battaglia, come un eroe di una tragedia del suo grande predecessore, tanto da farmi pensare ad una fine volontaria o quantomeno presagita.

   Tante le lettere quanto le morti.

di Maurizio Chiararia

(continua)

 

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