Il lotto 285 – Capitolo trentatré

“Da epoche senza numero gli eventi s’erano andati componendo in tal modo in quel meraviglioso mosaico, ad alcune parti del quale, foscamente discernibili, noi diamo il nome di storia, che le azioni che egli aveva in animo avrebbero rovinato l’armonia del disegno. Circa venticinque anni prima la Potenza cui spettava l’esecuzione dell’opera secondo quel disegno, era corsa ai ripari facendo nascere un bambino maschio in un villaggetto ai piedi dei Monti Carpatici, lo aveva allevato con cura, ne aveva sorvegliato l’educazione, avviato i desideri verso una carriera militare e col tempo ne aveva fatto un ufficiale d’artiglieria.”

Ambrose Bierce – Storie di soldati

Ho vissuto la mia prima infanzia in una città di mare. Ricordo quando nei pomeriggi dopo la scuola andavo al molo del porto a pescare assistito da mio zio Michele, con una canna improvvisata ed una lenza  con un filo che si spezzava al primo ostacolo che trovava. L’amo era spesso guarnito di semplici molliche di pane che, a contatto con l’acqua, dopo qualche minuto si sfaldavano (o i pesci erano troppo furbi da mangiare l’esca prima che me ne accorgessi) e dovevo ricaricarlo continuamente. I pesci del porto erano molto scarsi ma noi non potevamo avventurarci al largo, primo perché non possedevamo una barca, secondo perché mia madre mi aveva proibito categoricamente di accompagnarmi a suo fratello (mio zio) perché lo riteneva un elemento spericolato, anche se si piccava di intendersi di mare. I soli pesci quindi che pescavamo erano i cosiddetti “maccioni”, che non erano altro che semplici ghiozzi dalla pelle grigia, privi di squame, che mettevamo poi su una graticola alimentata da un fuoco casalingo che accendevamo al nostro ritorno. Mia madre era ossessionata da molte paure, un po’ perché ero l’unico figlio, un po’ perché i suoi nervi erano scossi per la recente perdita di una figlia, morta alla tenera età di tre anni di leucemia. Così mi accompagnava regolarmente a scuola e mi veniva a riprendere sempre all’uscita, con mia grande vergogna nei confronti dei miei compagni che vedevo arrivare ed andar via autonomi e senza controlli.

Quando poi diventai un po’ più grandicello, i miei genitori cominciarono a portarmi in vacanza dopo la scuola su una spiaggia vicina alla città, meta di gite del fine settimana anche dei miei parenti. Veniva spesso con noi  la mia giovane zia che, contrariamente a mia madre, era molto permissiva ed a volte sfuggivo alla sua vista, cosa che non avrei potuto fare sotto il controllo costante di mia madre. Mi allontanavo quindi dalla spiaggia e mi dirigevo verso il promontorio che si ergeva sulla destra che a quell’epoca, nella mia fertile immaginazione di ragazzo, mi appariva come un luogo scuro ed impervio, una meta però che mi affascinava. Anche per il nome che gli veniva dato: La Sella del Diavolo.

Ricordo che facevo la salita di corsa fino ad arrivare allo strapiombo su cui il mare si infrangeva, burrascoso. Per me era come conquistare la vetta di un’altissima montagna e mi spingevo a volte sul ciglio della roccia, con il pericolo di precipitare nel vuoto. Una sensazione che ancora mi perseguita, se ripenso al sogno che avevo fatto tempo addietro, nel quale venivo gettato nel baratro senza fine di una prigione.

Storia di Gabor, l’ungherese

Molti anni dopo, in piena guerra, feci un altro sogno, anch’esso terribile e misterioso ma che non riguardava me bensì una persona, un militare dei servizi segreti britannici, di cui avevo sentito parlare dopo il mio attacco al carcere di fine dicembre, la cui storia mi era stata raccontata in parte da una staffetta partigiana croata, di nome Neda, vicenda che mi aveva colpito particolarmente tanto da indurmi, nel sonno, inconsciamente, a volerla ricostruire. Non è facile riportare nella sua interezza un sogno ma la mente, talvolta, nel lavorio onirico, si rivela più viva che non nella veglia che di per sé è dispersiva e fallace. Comunque, con mio grande stupore, fu lo stesso personaggio a narrare le sue esperienze, con la voce rauca di un ectoplasma, ammesso che gli ectoplasmi, pur se in un sogno, avessero potuto parlare:

“Mi chiamo Gàbor. Sono nato alla fine della prima guerra mondiale  in una cittadina dell’allora Transilvania ungherese, ai piedi dei Monti Carpazi. Tre anni dopo la mia nascita l’intera mia famiglia, di origine ebrea, composta da mio padre Samuel, da mia madre Ida Olga e dai due fratelli Imre e me, Gàbor, decise di emigrare dal Regno d’Ungheria al Trentino-Alto Adige e precisamente a Merano, In seguito alla morte di mio padre, mia madre, ormai vedova, e noi due fratelli ci trasferimmo per qualche tempo in Germania ma anche da lì, con l’avvento di Hitler al potere, fummo costretti a fuggire e a tornare in Italia, stabilendoci a Milano.

La vita in quei tempi in Italia era grama e lo era ancor più per gli immigrati ungheresi, oltretutto ebrei. Con l’entrata in vigore delle leggi razziali nel 1938, io solo decisi di lasciare il paese. Mi imbarcai su un piroscafo con destinazione Algeri dove trovai da vivere facendo lavori saltuari. E fu proprio in quell’ambiente che presi i primi contatti con la resistenza francese e successivamente, a Gibilterra, con elementi dell’esercito inglese che mi  arruolarono nel SOE con il grado di capitano. Intanto mia madre, nel pericolo di essere internata o deportata, aveva fatto ritorno in Ungheria.”

In quello strano sogno, così dettagliato, da sembrare più una testimonianza, scoprivo dei riferimenti a quella che sarebbe stata la mia prossima partecipazione all’OSS, i servizi segreti americani, dai quali sarei stato incaricato di svolgere diverse missioni ed avrei ricevuto anche una medaglia. Intanto la giovane croata con cui ero venuto in contatto e che mi sembrava somigliasse stranamente, forse per una mia suggestione, alla serba infida dell’altro sogno, mi rivelò il seguito di quella storia:

“Il 10 gennaio 1943 Gàbor prese parte all’operazione “Moselle”, sbarcando a Capo Sferracavallo, sulla costa nuorese, da un sommergibile britannico. Cadde tuttavia nelle mani del SIM, il Servizio Segreto Militare italiano, e nel maggio dello stesso anno venne tradotto nel carcere della capitale dove stette per più di un anno.  In questo periodo, anch’io reclusa nel carcere, feci la conoscenza dell’ufficiale. Pur essendo ristretta in una cella godevo di una certa libertà e ogni tanto mi era consentito di uscirne: così potevo parlare di nascosto con gli altri prigionieri, magari attraverso gli spioncini delle porte. Per tali contatti fui anche rimproverata dai carcerieri che minacciarono di ridurmi questa piccola libertà di movimento, qualora avesse continuato a parlare con gli altri detenuti. Gàbor era uno di quelli,  forse tra i più bisognosi di raccontarmi, nei tempi e nel luogo che erano possibili, la sua storia, anche per la ragione che provenivamo da due regioni contigue dell’Est Europeo. Io allora ero una giovanissima staffetta partigiana ed ero stata attiva nella Resistenza dapprima nella Croazia annessa all’Italia e poi nelle Marche. Arrestata dai tedeschi, venni trasferita nel carcere nell’inverno del 1943, quando non avevo ancora compiuto vent’anni.”

Qui termina il mio primo resoconto delle avventure, fino ad ora da me conosciute, di Gàbor l’ungherese e di Neda la croata.

N.d.A.

Devo ringraziare Aladino Lombardi, che con il suo articolo su “Patria Indipendente” del 27 settembre 2009 è stato forse il primo a ricostruire questa vicenda ed il portale “Storia XXI secolo” per le notizie fornitemi.

(continua)

di Maurizio Chiararia

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