Il Lotto 285 – Capitolo trentacinque

“Soltanto i morti hanno visto la fine della guerra.”

Platone

   Si era ai primi di febbraio e molti avvenimenti si erano nelfrattempo accavallati, quasi tuttiluttuosi, senza che noi gappisti, con le nostre poche forze, avessimo avuto la possibilità di tener loro testa, mentre la stretta del nemico si faceva di giorno in giorno più pressante. Diversi compagni erano stati catturati, alcuni torturati nel famigerato carcere della Gestapo, altri erano morti suicidi o di stenti nel carcere cittadino.

   Il Comitato Studentesco antifascista, in quei giorni, aveva indetto uno sciopero generale di protesta in tutte le scuole della città. Un folto gruppo di studenti si era diretto verso piazza della Libertà, scandendo slogan contro gli invasori tedeschi e i fascisti. Quando i manifestanti erano prossimi alla piazza, furono presi di mira da una squadra di fascisti in borghese, che facevano parte di un gruppo di volontari della RSI del battaglione “Onore e combattimento”, proveniente dal nord e acquartierato in una caserma della città. Uno di questi, con un gesto che poi rivendicò come “eroico”, abbatté con una rivoltellata alla schiena uno studente. Il ragazzo fu subito trasportato al vicino Ospedale, ma vi morì dopo tre giorni di agonia.

   Un professore comunista che era stato tra i primi a farci avvicinare alla lotta armata e che aveva inizialmente attribuito ad alcuni di noi i nomi di battaglia dei quattro evangelisti, era stato catturato nella sua casa che era anche la sede clandestina del primo giornale di agitazione politica apparso subito dopo la presa del potere da parte dei fascisti. Fin dal primo mese dell’occupazione tedesca il nostro gruppo si era formato spontaneamente sotto il comando di questo civile, che si era reso disponibile, in quanto insospettabile professore di liceo in una scuola adiacente al luogo dove avremmo programmato il primo attacco, a dirigerlo, ne eravamo certi, con un’autorità che gli era dovuta per il suo passato di perseguitato politico negli anni dell’oppressione fascista, e che quindi ritenevamo idoneo a gestire le nostre poco organizzate operazioni.

   Poi, proprio nel primo giorno di quel tragico Febbraio, venne la spiata che comportò l’arresto, la detenzione e la successiva eliminazione di alcuni dei personaggi più importanti della nostra organizzazione. In un appartamento al secondo piano di un edificio in una delle più antiche strade della città era stato allestito un laboratorio per la produzione di materiale esplosivo, chiamato per l’appunto “La Santabarbara”. Vi lavoravano costantemente due persone, uno studente di architettura venuto a Roma dal Nord, e un docente universitario di chimica.

Due di noi, che in realtà si aggiravano circospetti nei paraggi, cercarono di avvertirli, ma non in tempo, prima che la Gestapo facesse irruzione nell’appartamento.

   Le cose andarono così. Io, la mia compagna e un altro gappista stavamo progettando, intorno alla fontana che ci aveva visti mesi prima creare il nostro sodalizio, alcune azioni a difesa della comunità ebraica quando ci venne il mente di andare a trovare i due che lavoravano nella “Santabarbara”, di cui non avevamo notizie già da tempo. Il luogo era poco distante da dove ci trovavamo, così, dopo aver lasciato la mia compagna ad occuparsi dei sopralluoghi nel Ghetto, ci dirigemmo di buon passo verso il nostro obbiettivo. Giunti, rasentando i muri per evitare di essere identificati, nei pressi del portone della palazzina, col proposito di salire su vedemmo all’improvviso uscirne un gruppo di gendarmi dalle divise verde marcio che sapevamo essere quelle dei corpi speciali nemici. Portavano via, legati, i nostri due artificieri. Noi, assumendo un’aria indifferente, stavamo cercando di defilarci quando venimmo fermati da un perentorio “Alt” dei tedeschi, i quali corsero, con le armi spianate, verso di noi. Io riuscii a fuggire svoltando in un angolo della traversa più vicina mentre il mio compagno fu preso. Seppi poi che, essendo prigioniero in quell’”albergo” sede della Gestapo ed interrogato sulla mia identità egli negò di conoscermi e che l’avevo fermato chiedendogli una semplice informazione.

In realtà ero andato lì, col pericolo di venir preso, per contattare lo studente di architettura per renderlo edotto di una riunione clandestina che avevamo fatto, in un luogo segreto, con le altre reti dei Gap cittadini e che avevamo deliberato di interrompere le nostre azioni nella Capitale e che queste dovessero continuare sulle colline, fino all’arrivo delle truppe alleate, per poi trasferirci al Nord per continuare la cospirazione. Avevamo anche, io e il mio compagno artificiere, noleggiato una macchina per raggiungere qualche località nell’area ad ovest della penisola. Ma tutto questo fu vano perché adesso lui giaceva in una cella, controllato a vista dalle guardie della prigione.

   Intanto, una delle nostre più ardite compagne di stava preparando a colpire il commissario della Federazione dell’Urbe, vicesegretario del Partito Nazionale Fascista,  di cui ancora però non conoscevamo la vera identità essendo sfuggito più volte ai nostri appostamenti.

di Maurizio Chiararia

(continua)

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