Parasite e il suo regista filosofo

Hollywood infrange per la prima volta nella sua storia un tabù fondativo. L’Oscar è un premio che tutti i rappresentanti dei mestieri del cinema americano – dai costumisti, ai truccatori, agli elettricisti, fonici, operatori, direttori della fotografia, scenografi, sceneggiatori, attori, registi – conferiscono a un film in lingua inglese. E lo danno dopo aver assistito a proiezioni di gala organizzate per loro in molte città americane. Per i film stranieri l’Oscar – differenza di quello principale – si chiama infatti Miglior film in lingua straniera. Nell’epoca della globalizzazione, in cui un film è possibile vederlo via web, con l’opzione di sottotitoli e contenuti extra, ogni artista o artigiano del cinema può farsi immediatamente un’idea ed esprimere un giudizio circa il valore del film, su una scala di confronto che è anch’essa immediatamente globale. Ben quattro Oscar sono dunque piombati su Parasite, Parassita, del sudcoreano Bong Joon-ho, girato in lingua coreana e già Palma d’Oro a Cannes 2019: Miglior Film Internazionale, Migliore Sceneggiatura Originale, Migliore Regia, Miglior Film. Esso ha completamente sottratto la scena ad almeno altri due film massimamente meritevoli: C’era una volta… Hollywood, di Quentin Tarantino, e 1917, di Sam Menders.

Si sono soffermati diversi critici su un aspetto poco credibile del film. Si tratta dell’incredibilità del fatto che in pochi giorni i personaggi del film imparino perfettamente a fare un lavoro che non avevano mai fatto prima e a eccellere in esso, tanto non solo da farsi assumere da una famiglia dell’alta borghesia locale, ma a entusiasmarla per le loro capacità altamente professionali. Ci troviamo di fronte al solito vizio di una visione meramente “realista” nel guardare un’opera con alto valore simbolico, artistico, di pensiero. Quanto meno ci si dovrebbe soffermare a riflettere sul perché un grande regista compia una scelta simile. Invece no. Si liquida la cosa come una “licenza poetico-narrativa”, un fatto su cui non vale tanto la pena soffermarsi, da prendere così com’è, nonostante la sua assoluta non credibilità fattuale.

In realtà la mirabolante capacità dei personaggi – membri di una stessa famiglia di pezzenti – di falsificarsi, come qualificati professionisti di lavori mai fatti prima, attinge simbolicamente a una realtà messa sotto la lente filosofica da un grande pensatore sudcoreano, laureatosi in Germania, dove oggi è docente universitario e autore di importanti opere sulla contemporaneità. Di uno dei suoi ultimi libri, Psipcopolitica, riguardante i social media, ho scritto lo scorso anno su Stampa Critica. Si tratta di Byung-chul Han, e la realtà che Bong Joon-ho riflette nella paradossalità di quei personaggi è racchiusa nell’espressione cinese “shanzhai”. Espressione che sta per copia, falsificazione, fake. Il titolo dell’opera di Han è infatti Shanzahi. L’arte della falsificazione e della decostruzione in Cina. Tale arte è ormai un fenomeno produttivo e sociale di massa in Cina, che non pretende di ingannare nessuno, di spacciarsi per quello che non è. Sulla scorta di solide argomentazioni ed esempi, Han sostiene che tale capacità di falsificazione di modelli originali spesso riesce a superare, a migliorare tecnologicamente l’originale stesso. Una nota marca di smartphone è stata perfettamente falsificata, ma con una cruciale funzione in più: quella di riconoscere i soldi falsi. Un falso che smaschera un altro ben più deleterio falso. Tale capacità di avanzamento tecnologico innovativo – sostiene Han – non è dovuta alla genialità individuale o di ristrette equipe tecno-scientifiche, ma da un vero e proprio processo creativo anonimamente di massa. Processo che affonda le sue radici nella diversa visione esistenziale dei cinesi, che in termini filosofici occidentali si può definire “immanente inclusiva”, contrapposta a quella “trascendente esclusiva” della nostra tradizione ontologica.

Byung-chul Han non solo è oggi uno dei più importanti pensatori della filosofia contemporanea occidentale, ma ha sviluppato anche quella zen, asiatica, orientale, divenendo una celebrità anche in quelle latitudini. Per questo è impossibile che Bong Joon-ho, il regista di Parasite, non conosca direttamente o indirettamente la sua opera, non si sia sentito – consciamente o inconsciamente – creativamente attratto dal bisogno di confrontarsi con essa. il tema dello shanzahi. Questo costituisce per il regista sudcoreano solo un punto di partenza per sviluppare la sua più complessa e originale cifra cine-politico-esistenziale, diversa da quella altrettanto complessa e stratificata del filosofo tedesco-coreano. Una visione del contrasto sociale, della lotta di classe, come si sarebbe chiamata una volta, senza però più la consapevolezza novecentesca e dunque più inquinata, violenta radicale. Il tanfo di povertà, dietro gli abiti e i modi rispettabili del maggiordomo, rimane incancellabile e immediatamente riconoscibile dagli alto locati dominanti. E i sottomessi, gli esclusi non sanno andare oltre, esprimere altro che il desiderio sotterraneo di scannare e scimmiottare questi nei loro vuoti riti di classe. Resta indubbio, però, che l’infimo scantinato in cui è confinata la famiglia falsificatrice non è che il sottosuolo mentale-culturale di una falsificazione di potere ben più deleteria: il dominio umano sull’interezza e integrità dell’essere in senso non solo filosofico.

di Riccardo Tavani

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