Rossana Rossanda: In morte di Pasolini

A caldo, subito dopo la morte di Pier Paolo Pasolini, Rossana Rossanda scrisse un lucido e coraggioso commento, in cui prendeva le distanze anche dalla linea di Luigi Pintor, che in Pasolini inclinava a vedere solo un borghese e ambiguo corruttore di minori. Per la Rossanda, invece, scrive il centro studi Pasolini di Casarsa, il poeta assassinato era l’intellettuale più scomodo del suo tempo, detestato da tutti in vita quanto ipocritamente compianto post-mortem ma malinteso e pronto a essere strumentalizzato dalle parti più diverse. Ucciso una seconda volta, dunque, anche più atrocemente di quanto fosse avvenuto all’Idroscalo, dove secondo la Rossanda, Pasolini fu inghiottito dalla via senza uscita delle sue contraddizioni e ancor di più del suo essere estremamente scomodo a destra quanto a sinistra.

Rossana non c’è più, noi vogliamo salutarla non con la retorica raccontando la sua storia, ma pubblicando un suo scritto, scomodo. Scomodossimo come lo stata lei in tutta la sua vita.

                                         In morte di Pasolini

                                         di Rossana Rossanda

                                  “il manifesto” 4 novembre 1975

Con commossa unanimità di accenti, da destra e da sinistra, la stampa italiana piange Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale più scomodo che abbiamo avuto in questi anni. Diventato, anzi scomodissimo. Non piaceva a nessuno, quel che negli ultimi tempi andava scrivendo. Non a noi, la sinistra, perché battagliava contro il ’68, le femministe, l’aborto e la disobbedienza. Non piaceva alla destra, perché queste sue sortite si accompagnavano a un’argomentazione sconcertante, per la destra inutilizzabile, sospetta. Non piaceva soprattutto agli intellettuali, perché era il contrario di quel che in genere  essi sono, cauti distillatori di parole e di posizioni, pacifici fruitori della separazione fra “letteratura” e “vita”, anche quelli cui il ’68 aveva dato cattiva coscienza. Solo di essi, Sanguineti ha avuto, ieri, il coraggio di scrivere “finalmente ce lo siamo tolto dai piedi, questo confusionario, residuo degli anni cinquanta”. Gli anni cioè della lacerazione, apocalittici, tragici. Finalmente, per l’intellettuale di sinistra, superati. Questa pressoché totale unanimità è certo la seconda pesante macchina che passa sul corpo di Pasolini. Come della prima, chi ha la coscienza a posto può dire: “se l’è cercata”. Per chi non ha queste certezze è invece l’ultimo segno di contraddizione di questa contraddittoria creatura: una contraddizione vera, non ricomponibile in qualche artificio dialettico. Giacché, se una cosa è certa è che questo improvviso riconoscersi tutti nelle sue ragioni, ora che è morto e in questo modo, è davvero l’ultimo sbeffeggiamento che gli restituisce questo nostro mondo non amato. Non è, infatti, il tradizionale omaggio al defunto illustre, e neppure la consueta assoluzione per il defunto in vita detestato. Se tutti scrivono sullo stesso registro (L’Unità in un corsivo commosso, abbozza perfino un’autocritica, mentre il partito radicale lo iscrive post-mortem) è perché ognuno, dalle ragioni di Pasolini, pensa oggi di poter trarre il profitto suo. Non diceva che i giovani sono, ormai, come una schiuma lasciata da una mareggiata che ha distrutto i vecchi valori? Che una collettività deve darsi un ordine, un sistema di convivenza, un modello? Su questo sono d’accordo tutti, salvo dare ciascuno, a questo ordine e a questa denuncia, il segno che più gli conviene.

Pasolini, l’intellettuale più outsider della nostra società culturale, fornisce con la sua indecorosa morte la prova ferrea che così non si può andare avanti. Così comoda, che tutto il resto è perdonato. Penso che su questo fervore e i suoi corollari, Pasolini avrebbe – se è lecito immaginare questo gesto in un uomo così dimessamente gentile – sputato sopra. Che, se ne fosse uscito vivo, oggi sarebbe dalla parte del diciassettenne che lo ha ammazzato di botte. Maledicendole, ma con lui. È così fino all’inevitabile, forse prevista e temuta, altra occasione di morte. Ma con lui, perché era il mondo, queste le creature della sua vita più vera (“io li conosco questi giovani, davvero, sono parte di me, della mia vita diretta, privata”) in cui cercava, ostinatamente, una luce. In loro, non nel mondo d’ordine, che non sono solo i commissariati di polizia. Qui tornava perché nella sua visione del mondo altre strade non c’erano. La sua denuncia dello “sviluppo”, dei valori del consumismo, del profitto, dell’appiattimento da essi indotto in una società preindustriale dove ancora potevano prevalere i rapporti personali, non allineati, non passivamente accolti era – come in genere è in questo filone, che ha esponenti illustri, cattolici e laici – unidimensionale come la società che criticava; era vissuta come fine della storia, imbarbarimento, di fronte al quale soltanto cercar di arretrare. Arretrare, finché un rifiuto opposto a questo tipo di “sviluppo” – e chi può opporvisi se non il margine, o un terzo mondo non ancora arrivato a questa soglia? – non avrebbe offerto un’ancora di salvezza. Altrove, salvezze non vedeva, per questo Pasolini tornava, ostinatamente, in borgata e più gli sfuggiva, più vi tornava tormentosamente. Tanto più che in tutti i sensi doveva presentarglisi come una frustrazione, una contraddizione. Cercava un rapporto autentico, e non tesseva, invece, un rapporto mercificato? Cercava un rapporto libero e non ripeteva lui stesso – l’intellettuale ricco che arriva con l’Alfa e paga il ragazzo davanti a lui, socialmente e personalmente tanto fragile – un rapporto fra oppressore e oppresso? Né l’umiliazione che ne doveva ricevere in cambio (quante prove, meno tragicamente finite, di questa sua morte deve aver vissuto; l’irrisione del compagno occasionale, il rifiuto, la resistenza di chi si fa usare ma si sente usato, e quindi si ribella) poteva assolverlo dal fatto che entrava egli stesso in questo meccanismo alienante. Nel quale l’interlocutore diventava sempre più sfuggente, più “oggetto”. Diverso da un tempo, quando il ragazzo veniva con lui ma mantenendo una sua figura, una sua dimensione non integrata, ma asservibile, come il Tommaso di Una vita violenta.

Oggi non è più così: il ragazzo che lo ha ucciso ha poco in comune col borgataro d’un tempo. Dovrebbe esser rilasciato domani, ai sensi dei valori che reggono questa società (oltre che di un’umanità elementare) perché non è da dubitare della testimonianza della sua borgata, e cioè che non aveva gran voglia di lavorare – e chi ce l’ha – ma era pronto e prossimo a rientrare nell’ordine della famiglia, solo provvisoriamente e venalmente violato. Nulla, in questa storia, è davvero uguale a quel che sembra. Non il ricco vizioso che cerca amori nascosti fra gli emarginati, giacché nessuno come Pasolini viveva più semplicemente la sua inclinazione omosessuale e avrebbe potuto soddisfarla, in una società ormai più permissiva, senza rischi di sorta. Non il giovane vizioso, che non c’è: né come vizioso, né come delinquente, e neppure come volontariamente deviante, ribelle alla norma.

Morte accidentale nell’inseguimento di un fantasma, si potrebbe dire. Con soddisfazione per i più, con amarezza per chi di Pasolini aveva stima e rispetto. E funerali, adesso, con assunzione in gloria da parte di chi, quel fantasma, ha prima costruito e poi esorcizzato. Se Pasolini è oggi così lodato, se probabilmente in buona fede tanti si riconoscono in metà del discorso che lui faceva, è perché l’altra metà per lui essenziale, quella in cui riponeva la sua speranza, non aveva fondamento. Quante discussioni, le poche volte che lo incontravo, è sempre le stesse; le stesse che ripeteva puntualmente con Moravia.È vero che il capitale ci ha disumanizzato. È vero. È vero che la conformazione al suo modello è mostruosa. È vero che essa è così potente, da riflettersi persino in chi la nega; nel ’68, quando scrisse la famosa poesia sugli scontri di Valle Giulia, Pasolini, vedeva nello studente il prodotto d’un ceto che può perfino “provare” la rivoluzione, cosa che al poliziotto, figlio di bracciante meridionale, non è permessa, e coglieva una parte di verità. È vero che oggi, e non ieri, si può parlare di aborto, e non solo perché è maturato il movimento femminista, ma la società maschile pensa a “economizzarsi”. È vero che scuola dell’obbligo e Tv sono organismi del consenso. È vero che il fascista non è così diverso dal democratico, nei suoi modelli culturali, come era nel 1922. Vero tutto, e tutto parziale: perché ogni volta che Pasolini toccava con mano queste scomode verità, l’ambiguità del presente, faceva seguire un salto indietro, verso l’umanità non ambigua di “prima”, invece che cogliere nello studente, nel femminismo, nella scolarizzazione, nella stessa comformizzazione, il principio d’una sicuramente spuria, ma vitale via d’uscita in avanti. L’idea che questo itinerario si dovesse compiere fino in fondo e di qui ritrovare il filo d’un mondo restituito all’umanità, era in lui sempre più lontana. Avrebbe potuto essere uno scettico, diventava, in senso classico, un “reazionario”.

È questo oggi viene sfruttato, questa è la seconda macchina che passa sul suo corpo. Giacché del valore dirompente, violento, di questa sua reazione nulla resta, nella elegia delle prime, seconde e terze pagine che gli sono dedicate. Avrà un funerale borghese, e fra qualche tempo il comune di Roma gli dedicherà una strada . Lo ammazzeranno meglio, i suoi veri nemici, che non il ragazzo dell’altra sera. Nel quale, prima di perire, deve aver visto soltanto la sua via senza uscite in cui sera cacciato, la dimensione  del suo errore. E pensare che cercava l’angelo della Passione secondo Matteo

di Claudio Caldarelli

 

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