Una luce accesa sul teatro italiano

silviaAd un anno dalla chiusura dei cinema e dei teatri, l’U.N.I.T.A. ovvero l’Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo, lunedì 22 febbraio, nel rispetto delle disposizioni di legge previste per il contenimento del contagio, ha deciso di scendere in piazza e di farsi notare, illuminando simbolicamente l’ingresso dei teatri italiani. Aderisce alla protesta anche il Teatro Vascello di Roma, chiuso esattamente da dodici mesi, come del resto, tutti i cinema ed i teatri d’Italia. Un gesto di protesta teso a far considerare lo stato di sofferenza e di attesa senza speranza, una rivolta pacifica ed in sicurezza, quella che ha spinto tanti amanti del teatro a prendere parte all’iniziativa, con l’intento di fare luce sulle cause che hanno portato i lavoratori dello spettacolo allo stremo delle forze. Gabriele Lavia ha prestato la sua voce ed ha declamato alcune poesie dall’atrio del Vascello, mentre all’esterno si sono radunati (mantenendo le distanze di sicurezza) moltissime persone unite nella protesta.

In poche parole, la rivolta ha come obiettivo quello di risvegliare interesse sulle prossime scelte del nuovo governo, ponendo l’attenzione sulle criticità attuali e sottolineando come sia necessario studiare un piano capace di poter far riaprire i teatri in totale sicurezza. Infatti, finite le risorse economiche, migliaia di persone attendono una soluzione ai loro gravi problemi lavorativi, l’intera industria artistica, per quel che riguarda spettacoli e concerti dal vivo, è arrivata al limite di sopportazione, disperato è il grido che si alza dalla piazza: il teatro è morto senza la possibilità del pubblico presente.

Gabriele Lavia, cita anche Sofocle, il grande drammaturgo greco, che nel celebre Edipo ricorda come bisogna “proteggere e liberare le città dai danni provocati da un’epidemia, prima che un’intera comunità si ammali di tristezza, non riuscendo più ad immaginare il futuro”. Lavia getta luce sul senso del teatro, ci regala la sua valutazione sull’origine del teatro, immaginando un ipotetico antenato che per primo ha ideato una rappresentazione teatrale. Grazie alla sua citazione, approfitto con gratitudine e prendendo spunto da essa, immagino il primo “attore” davanti al suo “pubblico”, immagino l’uomo delle caverne, lo penso mentre magari sta raccontando una sua esperienza davanti ai suoi compagni all’interno di una grotta. Sorrido all’idea di un uomo che descrive la sua giornata con la mimica, con i gesti, emettendo forse anche dei suoni gutturali per ricordare un ruggito oppure un barrito, insomma, un uomo  che cerca di rappresentare con una serie di espressioni una sua azione di caccia, riuscendo forse a riprodurre e a comunicare con la sua pantomima, le varie fasi della battuta: dalla ricerca dell’animale attraverso il fiuto, alla contentezza nell’averlo individuato, dall’attesa per sorprenderlo, alla lotta con l’animale, dallo sforzo e la fatica per catturarlo, fino alla gioia di averlo ucciso ed infine all’entusiasmo per averlo portato a casa dove tutta la comunità ha apprezzato quel gradito cibo. Magari il tipo era stato bravissimo, oltre che nella caccia, anche nel rendere coinvolgente tutto il racconto, la lunga serie di emozioni provate, la sequenza di azioni e sensazioni che aveva vissuto ed era riuscito a comunicare.

Quasi certamente i compagni gli avevano chiesto più e più volte, di raccontargli ancora la caccia al mammuth, per animare le lunghe “serate” nella caverna, applaudendo ogni volta alla fine del racconto, per dimostrare gratitudine a quell’uomo che li aveva intrattenuti. Magari non erano in molti a saper rappresentare così bene tutte la vicenda e solo lui, forse, era uno dei pochi capaci di emozionare la platea, esprimendo anche le sensazioni provate, le emozioni e tutto quello assolutamente indescrivibile con dei gesti, ma comunicabile esclusivamente attraverso quell’invisibile specchio che è la maschera dell’attore, “persona” come la chiamavano gli antichi greci, quella che nascondeva il volto dell’attore. Non tutti avevano quella dote innata, lui era uno dei pochi ad avere quel successo, grazie ad una spiccata capacità interpretativa, un dono di natura, molto vicino alla nostra idea di talento nell’arte della recitazione. Mi sono immaginata le serate dei nostri antenati all’interno della caverna, quello che potremmo chiamare il primo “pubblico”, illuminati dalla luce del primo fuoco, intrattenuti dal nostro primo “interprete” della storia, quell’uomo la cui presenza era richiesta anche nelle caverne vicine, per allietare le fredde serate invernali con i suoi racconti di caccia, eccoci dunque alle prime tournée di quell’uomo che riusciva a comunicare, a trasmettere il pathos, a trascinare gli animi e a far trascorrere momenti indimenticabili ai compagni.

Aristotele duemila e quattrocento anni fa, sosteneva che per comunicare in maniera ottimale bisognava contemporaneamente persuadere e convincere l’ascoltatore, e che per ottenere consenso da un pubblico si dovevano utilizzare i tre canali della comunicazione: Ethos, Pathos e Logos. L’Ethos rappresentava l’autorevolezza, la competenza e la credibilità, mentre il Pathos era la capacità di suscitare emozioni e di toccare i cuori lavorando sul piano affettivo, infine il Logos che rappresentava la razionalità e la capacità di comunicazione attraverso la parola. Anche Aristotele, quindi, ragionava intorno alla capacità dell’uomo di fare braccia nell’animo altrui, di smuovere emozioni e di arrivare all’altro per ottenere successo e ascolto, anche lui pensava che il ruolo dell’attore fosse quello indicato per dare la possibilità di conoscere sé stessi, come ha sottolineato Lavia dicendo senza mezzi termini: “Il teatro è la manifestazione più antica dell’essere umano, è probabile che l’uomo si sia reso conto di essere uomo vedendosi rappresentato”. Ecco, quindi, che emerge più forte che mai, la necessità di non perdere quel valore fondante che ha il teatro nella storia, nella coscienza e nell’autoconsapevolezza dell’uomo, l’urgenza di non ignorare il suo ruolo primario nella crescita individuale, la necessità di non abbandonare la tradizione teatrale che, come abbiamo visto, ci portiamo dietro dalla notte dei tempi.

Ecco perché l’appello dell’U.N.I.T.A. è quello di recuperare la vitalità stessa del teatro, quella che, come un fuoco sacro, si ripete serata dopo serata, quella purtroppo, andata a scemare durante questo anno di emergenza. Il teatro ha bisogno di persone in carne ed ossa e di spettatori in carne ed ossa, essenzialmente perché il teatro è cosa viva, autentica, sempre diversa nonostante le repliche, sempre uguale nonostante la estemporaneità e la possibilità di variare sera dopo sera la propria interpretazione. Come diceva Epicuro: “Nessun uomo entra mai due volte nello stesso fiume, perché il fiume non è mai lo stesso, ed egli non è lo stesso uomo”, il fiume che vediamo è sempre lo stesso, ma l’acqua che vediamo scorrere dentro quel fiume è sempre diversa e mai uguale a sé stessa, ed anche noi in questo momento siamo diversi da quello che eravamo un istante fa: “Ogni giorno, quello che scegli, quello che pensi e quello che fai è ciò che diventi.”. E allora ben vengano queste rivolte, queste proteste e queste richieste di aiuto da parte del popolo del teatro, che chiaramente non riesce a comprendere come mai un aereo o una chiesa possono tranquillamente ospitare gente senza tamponi alla mano, mentre un teatro no.

di Silvia Amadio

 

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