Mariola, che camminò la guerra sul filo del rasoio

Giacomino aveva sei anni nel ‘43. Camminava sulla Strada Maestra per mano alla zia Mariola quando in paese arrivarono i tedeschi, a bordo di una camionetta, con indosso una divisa sconosciuta. Alcuni avevano l’elmetto in testa, ma a Giacomino rimase impresso nella memoria quello  tra loro che calzava un paio di stivaloni enormi, e teneva un frustino in mano, e lo sbatteva di continuo sullo stivale. I tedeschi si fermarono davanti a casa sua, nella sede della Brigata Nera e da lì non se ne andarono più.

Mariola, la zia di Giacomino, veniva da lontano. Figlia di italiani di confine, in Germania aveva studiato fino a tredici anni. Al ritorno in Italia aveva prestato servizio in una casa di Trieste, poi in una di Milano. L’ultimo impiego l’aveva portata in Emilia e lì aveva trovato marito, messo su famiglia. La lingua tedesca Mariola l’aveva studiata davvero bene. Ai soldati che non capivano una parola di italiano quel suo tedesco pulito e scolastico serviva. E serviva tutti i giorni.

Perché i soldati tedeschi controllavano tutto, anche più di quanto avessero potuto controllare le milizie fasciste. Ogni movimento all’interno del paese doveva essere autorizzato da loro. E così ogni mattina Mariola andava al comando, ascoltava, traduceva, cercando di metterci del suo. Spesso chi si rivolgeva al comando chiedeva cose banali. Un permesso per comprare mattoni, per aggiustare un muretto, per uscire dopo il coprifuoco per assistere un ammalato. Mariola traduceva alla lettera quelle domande, cercando di sveltire le procedure. Quando però le richieste erano più sospette e potevano nascondere attività di sostegno alla Resistenza, allora Mariola traduceva interpretandole un po’, presentandole come normali attività quotidiane.

Col passare del tempo soldati tedeschi in giro ce n’erano tanti, sempre di più, i partigiani cominciavano a scendere dalle montagne, si muovevano anche in paese. Era più probabile che qualche  partigiano venisse catturato e interrogato.  Agli interrogatori Mariola la chiamavano sempre: mediava le domande, aggiustava le risposte. E dove poteva, aiutava. Perché la verità, in fondo, la sapeva solo lei.

 Avere un segreto è un’arma a doppio taglio. Mariola era sottoposta a una continua pressione da parte dei parenti dei prigionieri che chiedevano notizie. Quanto tempo passato a pesare le parole col bilancino, a mantenere un equilibrio difficile per non perdere la fiducia di nessuno, per proteggere la famiglia, i figli, i nipoti: più di tanto non poteva dire, ma in silenzio continuava ad aiutare!

E alla fine della guerra il suo tedesco non l’insegnò a nessuno.

Perché da sempre l’interprete (invisibile per la Storia) è l’unico garante dell’incontro linguistico culturale in un conflitto, eppure lo circonda un alone di diffidenza. Da un lato le forze militari temono che l’interprete locale possa avere dei contatti con le milizie locali, dall’altro la popolazione diffida della sua quotidiana frequentazione del nemico.

Negli ultimi anni della seconda guerra mondiale i partigiani hanno guidato la lotta per la liberazione, ma senza il lavoro discreto, costante e quotidiano delle donne la Resistenza avrebbe stentato: sono state le donne ad assistere i partigiani curando i feriti, raccogliendo e trasportando cibo e munizioni anche nelle zone più impervie delle montagne, a svolgere attività di propaganda politica e divulgativa diffondendo volantini, consegnando documenti. Sono state le donne a compiere piccole e innumerevoli azioni quotidiane di solidarietà verso chi era in difficoltà, azioni che in molti casi le hanno esposte a rischi gravissimi. Modeste, coraggiose, capaci, le donne hanno agito a volte con consapevolezza politica, ma sempre con la consapevolezza “umana” di dover agire per una giusta causa. Hanno partecipato alla Resistenza non per combattere , ma per vincere una guerra che  le potesse far vivere in pace.

di Daniela Baroncini

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