L’eroe di Little Italy

A 107 anni dalla morte di Joe Petrosino

Aveva modificato il suo nome mutandolo dall’originario Giuseppe, eppure restava ancora quel cognome a tradire le sue origini italiane, o meglio ancora meridionali, che tuttavia non disdegnava, pur avendo ormai la cittadinanza statunitense. Se fosse una canzone, Joe Petrosino sarebbe senz’altro “Tu vuò fa’ l’americano” di Renato Carosone, specie in quella strofa che dice: «Ma si’ nato in Italy».
Bassetto ma coi bicipiti possenti, originariamente spazzino ma poi con la divisa addosso, Joe ne aveva fatta di strada già in giovane età, tanto da essere apprezzato perfino da un certo Theodore Roosevelt, il cui appoggio era stato determinante per la nomina a sergente. Qui, libero dal servizio d’ordine pubblico, e quindi dalla divisa, poteva condurre a pieno titolo le indagini: i criminali di Little Italy si erano così trovati di fronte a un nemico che parlava la loro stessa lingua, che conosceva i loro metodi, che poteva entrare nei loro ambienti.
E Joe, nel farlo, aveva un motivo in più oltre al rispetto della legge: l’immedesimazione negli immigrati italiani, il cui patrimonio costruito con tanti sacrifici era messo in serio pericolo da quella nuova mafia, la Mano Nera, una tenebrosa organizzazione con ramificazioni fino in Sicilia, attraverso la quale si esprimeva il racket.
Nel 1905, divenendo tenente, gli fu affidata l’organizzazione di una squadra di poliziotti italiani, l’Italian Branch (composta di cinque membri, tra cui il suo successore, Michael Fiaschetti), con l’intento di seguire una pista che avrebbe dovuto portarlo ad infliggere, forse, un decisivo colpo alla Mano Nera. Petrosino giunse così in Italia in gran segreto, ma una fuga di notizie di matrice ignota finì col rendere pubblici molti dettagli di quell’operazione sul “New York Herald”.
«In fondo le mafie sono tutte un po’ uguali: anche in Sicilia, come a New York, non potranno mai uccidere un poliziotto»: questo è quanto pensava Joe. Ed è ciò che lo condusse alla morte. Alle 20.45 di venerdì 12 marzo 1909, tre colpi di pistola in rapida successione e un altro sparato subito dopo suscitarono il panico nella piccola folla che attendeva il tram al capolinea di piazza Marina a Palermo. Un uomo cadde lentamente a terra: di quei quattro proiettili, l’ultimo alla testa fu fatale. Poco dopo si scoprì che si trattava del detective Giuseppe Petrosino.
L’unico testimone a vincere l’omertà dilagante, un marinaio anconetano, giurò di aver visto due uomini allontanarsi in gran fretta e con fare sospetto. Dell’omicidio fu indiziato il boss Vito Cascio Ferro di Bisacquino, tenuto d’occhio da Petrosino sin da quando questi era a New York, ed il cui nome era in cima ad una “lista di criminali” redatta dal tenente italoamericano e trovata nella sua stanza d’albergo il giorno della morte.
Come sospettato anche dalla polizia palermitana dell’epoca, vi è un collegamento tra la morte di Petrosino e la sua risoluzione di un omicidio risalente ad alcuni anni prima, noto come “il corpo nel barile”. I personaggi malavitosi appartenenti alla cosca newyorkese di Giuseppe “Piddu” Morello erano – guarda caso – ritornati in Sicilia nello stesso periodo del viaggio di Petrosino rimanendo in contatto con il boss. Costui si sarebbe poi rivolto a Cascio Ferro affinché organizzasse l’omicidio per conto suo. Effettivamente, quando Cascio Ferro venne arrestato, gli fu trovata addosso una fotografia di Petrosino. Il malavitoso, tuttavia, vantava un forte alibi per conto di un deputato suo amico.
La lungimiranza era dunque costata cara a Petrosino: anni prima, quel suo stesso fiuto lo aveva portato a infiltrarsi nell’organizzazione anarchica responsabile della morte del re d’Italia, Umberto I, scoprendo l’intenzione di assassinare anche il presidente statunitense William McKinley durante una sua visita all’Esposizione pan-americana di Buffalo. McKinley, informato attraverso i servizi segreti, ignorò l’avvertimento e fu effettivamente ucciso il 6 settembre 1901.

di Massimo Salvo

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