La memoria dell’acqua
Il titolo originale è El Botón De Nácar – Il Bottone di Madreperla – e spiega meglio il percorso celeste fino agli astri e terrestre fino agli inferi che il regista ci propone. Dentro un cubo di quarzo bianco, risalente a migliaia di anni fa, è imprigionata una goccia d’acqua. Si muove come una piccola pupilla viva in una bolla d’aria nella trasparenza del cristallo. Su un tronco di rotaia, trovata nel fondo del mare cileno, è imprigionato il bottone di madreperla di una camicia con i suoi quattro fori. Il minerale siliceo potrebbe provenire da una cometa che attraversava lo spazio e si è sbriciolata nella nostra atmosfera. Il pezzo di rotaia, invece, provenire da uno dei tanti binari smantellati sulla lunga linea ferroviaria cilena, finito chissà come in mare e ossidato, incrostato ora di sale, alghe e licheni. Da una vertigine mitologica e stellare a un abisso liquido umano. Da un paradiso sulla superficie terrestre a un inferno nel suo sottosuolo geografico e politico.
E il film di Guzmán inizia davvero come un documentario geografico. Riprese mozzafiato aeree, satellitari e a pelo d’oceano sulla lunghissima e frastagliata costa marittima del Cile. Montagne, nuvole e distese d’acqua fuse insieme in un unicum paradisiaco in cui la sensibilità, la coscienza umana sprofonda come alla sua primordiale origine e purezza. Gli indios della Patagonia cilena popolano questa lingua di Eden che scende dritta verso l’estremità polare più meridionale del mondo. È della loro mitologia l’identificazione tra acqua e stelle: l’una è la memoria delle altre e viceversa. È un popolo di camminatori sulle acque e – dunque – tra le stelle. Il film aggiunge così, a quella geografica, una nota etnografica, antropologica. Patagonia, però, è termine dei conquistadores bianchi. Pata in spagnolo è zampa, e perciò prende a significare “Terra abitata da gente con le zampe larghe”. Da questo si capisce che sono considerati poco più che degli animali dai bianchi ispanici che occupano e razziano le loro terre. In breve la popolazione è decimata. Non solo è sottomessa, schiavizzata a usi, costumi, riti, alimentazione che diffondono malattie ed epidemie a loro prima sconosciute. No, divengono oggetto di una caccia grossa con battute tra la vegetazione a colpi di fucile che in poco tempo li stermina. Gli tagliano i capelli, gli strappano i denti, li derubano di ogni avere per farne oggetto di commercio. Un nobile inglese imbarca sulla sua nave di ritorno in patria un giovane indigeno, per trasformarlo in un distinto cittadino londinese. Lo chiama Jemmy Botton. Jemmy torna parecchi anni dopo ma non riuscirà mai più a ritrovare la sua identità: non sarà mai un vero gentleman britannico, ma neanche più un fueghino, in indios della Terra del Fuoco. La nota geografica e quella etnografica virano così verso quella bio-politica.
Lo scalino, anzi, il precipizio direttamente politico arriva improvviso e ti tira giù per i piedi dentro la sua drammatica spirale storica: la connessione tra il genocidio degli indios di Patagonia e la sparizione, la tortura, l’eliminazione in massa degli attivisti impegnati nel sociale da parte del generale golpista Pinochet. Una dittatura imposta e sostenuta dagli Stati Uniti d’America daIl’11 settembre 1973 all’11 marzo 1990. I membri del legittimo governo Allende e del Parlamento, furono concentrati e tenuti prigionieri proprio su alcune di quelle isole e terre indie svuotate dei loro più antichi insediamenti umani.
Per gli altri sequestrati e fatti sparire la macabra catena di morte è questa: 1) iniezione di Pentotal; 2) pezzo di rotaia legato con filo d’acciaio per tutta la lunghezza dal collo alle gambe; 3) incapsulamento dentro due opposti sacchi di plastica – uno calato dalla testa, l’altro infilato dai piedi –; 4) stessa cosa con due sacchi di juta; 5) carico a bordo di aerei o elicotteri militari; 6) rotta verso l’oceano; 7) progressivo sganciamento dei sacchi con corpi e rotaie in mare.
Secondo uno degli elicotteristi a queste operazioni partecipano diversi civili. Il corpo di una donna, però, riemerge dalle acque ed è trascinato sulla costa. 1) Quando i sacchi sono a bordo, si accorgono che uno si muove. 2) Lo aprono, la donna respira ancora. 3) La strangolano, allentando il filo d’acciaio che stringe la rotaia. 4) Richiudono rapidamente, alla meglio il sacco. 5) Lo buttano giù.
Dopo la fine del regime militare, un giudice incarica il sub che ha trovato il primo tronco di rotaia di cercarne altri. Ne trova molti. Su uno di essi, tra le incrostazioni di mare, è rimasto incapsulato il piccolo bottone di madreperla di una camicia. È ben visibile ma fisso, non oscilla come la goccia d’acqua dentro il blocco di quarzo. Eppure quanta memoria della nefanda acqua del potere, della sua folle volontà di annientamento scorre tra la sua minima circonferenza madreperlacea e i quattro buchi per la cucitura.
Non un semplice documentario ma un film in piena regola nell’alto uso del linguaggio cinematografico, drammatico e civile.
La memoria dell’acqua, di Patricio Guzmán, Cile, Francia, Spagna 2015, documentario, durata 82 minuti.
di Riccardo Tavani