Di migranti, burocrati e esami. Di vita
Ce l’abbiamo fatta. Dopo un anno di impegno e sacrifici, possiamo festeggiare nel migliore dei modi la fine del primo corso di lingua italiana al Torpignattara Muslim Center, ovvero con un attestato di livello A2 per tutti. Tutti! Ma con che fatica, potevo solo immaginarlo, all’inizio. E non parlo solo della fatica che ci è voluta per capire quale fosse il modo giusto per insegnare, a prescindere. Non solo di quella che ci è voluta per farsi accettare, io giovane, da uomini adulti e con vite così complicate. Nemmeno quella di acquisire i meccanismi che mi permettessero di superare gli ostacoli, seppure appiattiti, della loro cultura, a tratti molto differente.
Ebbene la fatica maggiore è stata quella di farglielo ottenere, questo benedetto certificato, e non per questioni di merito o competenze. Lo sforzo maggiore l’ho fatto per aiutarli a superare l’ostacolo che è quel mostro burocratico, che produce barriere che, se per noi sono problematiche, per loro possono essere insuperabili.
Siamo andati, venerdì scorso, in uno dei CPIA di Roma, sede prevista per l’esame, tutti emozionati come bambini. Io per primo. Erano elegantissimi, molto più di quanto lo sia io quando vado a fare un esame. Ci siamo messi seduti davanti ai commissari del ministero, tornati improvvisamente bambini per qualche ora. Perché come bambini vengono trattati, meno che uomini, a partire dal modo in cui a loro ci si rivolge. La competenza linguistica, non c’è niente da fare, pregiudica l’idea che di noi si fa chi abbiamo davanti. E automaticamente ci incasella in una condizione socioeconomica corrispondente.
Così questi uomini che hanno attraversato due continenti con mezzi di fortuna, impiegando anni per arrivare in Europa, spesso a piedi o, peggio, attraverso il mare, vendendo tutto ciò che in patria avevano e chiedendo a tutti i parenti di fare lo stesso, l’altra mattina sono tornati bambini, seduti davanti a un commissario totalmente ignorante in fatto di didattica dell’italiano come LS, che li trattava come idioti e dal quale avrebbe dipeso il loro futuro di permanenza in Italia. Perché un bel giorno, qualcuno si è svegliato ai piani alti e ha deciso che uomini venuti qui da più di dieci anni, che hanno sempre lavorato e vissuto in un modo o nell’altro, dovessero adesso dimostrare di saper parlare italiano per poter continuare a vivere e lavorare. Senza investire due lire di più, però, nel creare e organizzare una rete di corsi, di formatori, di insegnanti, di esaminatori. Lasciandoli di fatto in una giungla dove, lo ammetto, anche uno come me, volontario senza esperienza, li ha potuti portare a fare un esame, preparato e corretto da, con tutto il rispetto, persone poco competenti.
Davanti alla legge sta un guardiano, è stato scritto. Ebbene questo guardiano ha fatto di tutto per far sì che loro questo esame non lo superassero. E non in virtù di una qualche crudeltà o premeditazione, ma solo perché, sarà banale, con chi non conosce i propri diritti o non può farli valere, è facile indossare la veste del censore e del burocrate. Non scenderò nei particolari per non creare problemi a loro, ma mi piace pensare di aver fatto la mia parte. Di aver lasciato nelle loro vite una traccia, che è ben più importante del saper usare in modo corretto l’articolo o le preposizioni. Di averli aiutati così ad essere cittadini migliori, per questo Paese di buffoni. Così come loro, di traccia, ne hanno lasciata una nella mia, di vita.
di simone Cerulli