Riparazione per ingiusta detenzione

Antonella

La riparazione per ingiusta detenzione si configura quale diritto ad ottenere un equo indennizzo dallo Stato per la custodia cautelare sofferta ingiustamente.

L’ipotesi normativamente prevista dal Codice di Procedura Penale, nelle formulazioni degli articoli 314 – 315, fa riferimento alla detenzione subita in via preventiva prima dello svolgimento del processo e quindi prima della condanna eventuale.

Per cui laddove un soggetto, in attesa di processo, venga privato della libertà e poi assolto, potrà richiedere ed ottenere una somma di denaro che lo ristori dell’ingiustizia subita, per un importo massimo di Euro 516.456,90.

La domanda può essere avanzata direttamente dall’interessato, con l’obbligatoria assistenza di un avvocato penalista, il quale deve essere nominato nelle forme previste dall’ articolo 122 del Codice di Procedura Penale, ovvero munito di procura speciale.

Il presupposto del diritto ad ottenere l’equa riparazione consiste nella ingiustizia sostanziale o nella ingiustizia formale della custodia cautelare subita.

L’ingiustizia sostanziale è prevista dall’art. 314, comma 1, c.p.p. e ricorre quando vi è proscioglimento con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. E’ importante tenere presente che, ai sensi del successivo comma 3 dell’art. 314 c.p.p., alla sentenza di assoluzione sono parificati la sentenza di non luogo a procedere e il provvedimento di archiviazione.

L’ingiustizia formale è disciplinata dal comma 2 dell’art. 314 c.p.p. e ricorre quando la custodia cautelare è stata applicata illegittimamente, cioè senza che ricorressero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p. ed i relativi presupposti di legge, a prescindere dalla sentenza di assoluzione o di condanna.

La domanda di riparazione per l’ingiusta detenzione (315 c.p.p.- 102 norme di attuazione c.p.p.) deve essere presentata, a pena di inammissibilità, entro due anni dal giorno in cui la sentenza di assoluzione o condanna è diventata definitiva, presso la cancelleria della Corte di Appello nel cui distretto è stata pronunciata la sentenza o il provvedimento di archiviazione che ha definito il procedimento. Nel caso di sentenza emessa dalla Corte di Cassazione, è competente la Corte di Appello nel cui distretto è stato emesso il provvedimento impugnato. Sulla richiesta decide la Corte di Appello con un procedimento in camera di consiglio.

Il termine di 2 anni decorre dal giorno in cui la sentenza di proscioglimento o di condanna è divenuta definitiva, la sentenza di non luogo a procedere è divenuta non più impugnabile o è stata effettuata la notificazione del provvedimento di archiviazione.

In caso di decesso della persona che ha subito la detenzione ingiustamente, è ancora possibile ottenere la riparazione da parte dei parenti del de cuius.

Se l’interessato è deceduto, la domanda di riparazione può essere avanzata dal coniuge, dai discendenti e dagli ascendenti, dai fratelli e dalle sorelle, dagli affini entro il primo grado e dalle persone legate da vincolo di adozione con quella deceduta.

L’indennizzo può essere negato.

Non ha diritto ad essere indennizzato per l’ingiusta detenzione subita il soggetto che in qualche modo abbia contribuito a determinarla, con un suo comportamento doloso o gravemente colposo. In alcuni casi è possibile che il diritto alla riparazione sia negato per il fatto che l’imputato si avvalga della facoltà di non rispondere. Si sono registrate decisioni in tal senso, motivate con il fatto che, sebbene tale facoltà rientri nel diritto di difesa, qualora si accerti che proprio da questo silenzio sia derivata la conferma o la durata della privazione della libertà personale, non si può procedere alla riparazione.

Quanto alla natura della riparazione, sulle orme di un ormai sedimentato orientamento della Suprema Corte, la riparazione per ingiusta detenzione (art. 314 c.p.p. e ss.), non ha natura di risarcimento del danno ma di semplice indennità o indennizzo in base a principi di solidarietà sociale per chi sia stato ingiustamente condannato o ingiustamente privato della libertà personale. Trattasi di una specie di indennità o indennizzo che si ricollega alla figura dell’ “atto lecito dannoso”: l’atto lesivo che ne sta alla base è stato infatti emesso nell’esercizio di un’attività legittima e doverosa da parte degli organi dello Stato, anche se, in tempi successivi, ne è stata dimostrata l’erroneità o l’ingiustizia.

Quanto alla quantificazione dell’indennizzo, nella valutazione equitativa, che ovviamente non può mai comportare lo sfondamento del tetto massimo normativamente stabilito, dovrà tenersi conto di una serie di elementi: certamente della durata della custodia cautelare ingiusta, della tipologia della misura applicata (la carcerazione è sicuramente più afflittiva e quindi più “indennizzabile” degli arresti domiciliari), ma anche, e non marginalmente delle conseguenze personali, familiari, patrimoniali, morali, scaturite dalla privazione della libertà.

Pertanto, all’atto della richiesta, l’interessato non solo dovrà provare i fatti che pone a sostegno della domanda: di aver subito custodia cautelare e di essere stato successivamente assolto. Ma è altresì sempre consigliabile dettagliare, spiegare e, meglio ancora, documentare per quanto possibile la natura e l’entità dei danni (materiali e non) subiti in conseguenza della sofferta detenzione.

Per il calcolo del quantum in materia di indennizzo da ingiusta detenzione sarà imprescindibile ancorarsi alla valutazione in concreto delle sofferenze e non ad un rigido criterio matematico. Occorrerà quindi esaminare i fattori documentati, afferenti alla personalità, alla storia personale dell’imputato, al suo ruolo professionale e sociale, alle conseguenze pregiudizievoli concretamente patite e tutti gli altri di cui sia riscontrata la rilevanza, oltreché alla connessione eziologia con l’ingiusta detenzione patita. Così la produzione di una perizia psicodiagnostica, che accerti non solo il danno psichico e la sua cronicizzazione in un disturbo permanente, ma altresì il nesso causale in quanto danno eziologicamente riferibile all’ ”evento” subito, potrebbe fare la differenza!

I Giudici saranno dunque chiamati a valutare di volta in volta le circostanze del caso concreto, prescindendo dal semplice calcolo aritmetico, in considerazione del valore “dinamico” che l’ordinamento costituzionale attribuisce alla libertà di ciascuno, dal quale deriva la doverosità di una valutazione equitativamente, quanto necessariamente differenziata, ben lungi dall’affidarsi ad una ponderazione intuitiva che si sottragga all’analisi ed alla valutazione delle indicate e documentate contingenze rilevanti.

di Antonella Virgilio

 

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