Il lotto 285 – capitolo quarantatre

“Di storia dovrebbe scrivere solo la gente vecchia e timorata di Dio, la cui storia è essa medesima alla fine, e che non ha ormai più altro da sperare se non il trapiantamento nel verziere. Non oscura e torbida sarà la loro descrizione; anzi un raggio dalla cupola mostrerà tutto nella sua più vera e più bella luce, e un santo spirito aleggerà su queste acque singolarmente agitate.” Novalis – Enrico di Ofterdingen

Il sogno di Béla

   “Tutto era diventato per me sogno e presentimento.

   La folla era talmente fitta, quasi inestricabile che attraversarla richiedeva uno sforzo enorme, anche per uno dalla forte corporatura come me, Béla Grador. Questo nome era molto comune nella regione nella quale vivevo e ciò mi faceva sospettare che quegli individui che si stringevano attorno a me ne avessero uno uguale, anche per il fatto che la loro fisionomia, anche se indistinta come un’ombra in un sogno, sia quella femminile che quella maschile, mi sembrava una copia, un avatar, di me stesso. La moltitudine procedeva con la stessa andatura, lenta e quasi sonnambulica,  ma ciascuno era rivolto e procedeva in una direzione diversa. Non era una folla come quella che, di solito, si vede radunata, anche se numerosa, per avvenimenti sportivi o politici in un luogo limitato, ma copriva tutta la città, come una massa incandescente che scaturisca da un vulcano eruttante.

   D’un tratto tutta quella fiumana di persone si era fermata, si era guardata intorno e si era diretta, in massa, verso un’unica direzione, come attratta da un’enorme calamita, o da un messaggio divino incontestabile e categorico. D’un tratto i primi, fra i quali c’ero anch’io, che sembrava avessi avuto il compito di capeggiare il gregge, si erano fermati di nuovo e si erano chinati su di un corpo che giaceva inerte al suolo. Sapevo di essere un militare di alto grado e quindi mi ero messo ad esercitare la mia autorità, facendomi largo fra gli astanti e chinandomi a mia volta su quello che ormai sembrava un cadavere, ma posto in una posizione anormale, riverso, con una gamba insolitamente girata all’indietro, il corpo martoriato e la testa fracassata, quasi fosse stato gettato dall’alto di un palazzo o investito da un corpo duro e pesante. Ma, avvicinandomi ancora un poco, ero rimasto sorpreso dal notare che quel corpo era identico alla mia persona, solo un po’ più vecchio e malandato.

   Poi il sogno era cambiato, la folla era sparita quasi d’incanto e mi ero trovato a tu per tu con un uomo in divisa, con uno strano cappello, sormontato da un pennacchio, la cui foggia mi faceva pensare a qualcosa di desueto, appartenente ad un tempo passato. Costui mi aveva fatto segno col capo di seguirlo e così mi ero trovato dietro le sbarre di una prigione che però mi era sembrato non fosse quella dove sapevo di essere stato prigioniero fino ad allora. L’ambiente era più ristretto, quello che vedevo da dietro la grata era un piccolo cortile contornato da basse mura e dallo spioncino della porta intravedevo una scala come di un caseggiato di pochi piani, con due appartamenti per piano che sembravano più abitazioni destinate ad uso civile od a semplici uffici. Non avevo saputo dall’uomo con quella insolita divisa, che mi aveva accompagnato fino alla mia cella posta al terzo piano, quale fosse stata la ragione del mio trasferimento in quel nuovo luogo di detenzione. Ora egli si era posizionato davanti alla porta e fumava.”

   “Il comportamento di quell’individuo misterioso che avevo davanti a me, tutti gli episodi dell’avventura che avevo vissuto fino a quel momento mi erano passati davanti alla memoria, del tutto simile alla sfera di uno stregone sulla quale affiorano eventi da molto tempo sepolti che, svanendo, annunciano in modo sinistro e portentoso ciò che ancora si nascondeva nell’oscurità dell’avvenire.”

   Avvertendo un rumore, che rintronava, come amplificato, nelle sue  orecchie Béla Gondar, alias Gabor Adler, si era svegliato di soprassalto. In quel momento si era accorto che il sogno che aveva appena fatto non era altro che un presentimento di quello che gli sarebbe poi occorso poco dopo. Era abituato al pericolo e così non si era meravigliato di trovarsi ancora in una prigione, più spaziosa di quella dove aveva conosciuto la giovane combattente croata, Neda Solic, che, con fare deciso, ed a sprezzo del pericolo,anche se sapeva che, se i carcerieri avessero scoperto quei contatti, avrebbero ridotto quel poco libertà di movimento che si era conquistata, si era esposta a rivelare una sorta di complicità tra loro due, tra lui, l’agente dei servizi segreti britannici e lei, la giovanissima staffetta partigiana dell’est. Ma ora si  trovava prigioniero in un carcere della Gestapo, quello che io ed altri patrioti avremmo voluto assaltare qualche mese prima, nei giorni precedenti l’ingresso delle truppe alleate nella capitale.

   In quegli ultimi, concitati momenti, mentre le avanguardie alleate composte da soldati canadesi, cui si erano uniti i partigiani delle varie formazioni, stavano per entrare dalle strade provinciali a sud della città nella capitale, gli uomini della Gestapo non avevano ancora abbandonato la famigerata prigione. Come ultimo atto, nel fuggire avevano bruciato la maggior parte dei documenti, ed avevano caricato su alcuni autocarri  armi e casse di materiali, e su altri mezzi avevano fatto salire i prigionieri rimasti, fra cui il giovane capitano dei servizi. La colonna con gli ultimi militari in fuga, alle prime luci dell’alba, si era diretta verso Nord.

   Ben presto un primo autocarro, carico di prigionieri, era stato costretto a fermarsi per un’avaria. Alcuni prigionieri erano fuggiti ed avevano così avuto salva la vita. Un secondo autocarro, con altri prigionieri, aveva stentato a tenere il passo della colonna. Così veniva fatto fermare sul ciglio della strada, in prossimità di un campo, all’altezza di una località rimasta poi famosa per l’eccidio che vi si sarebbe stato perpetrato, e i prigionieri erano stati fatti scendere e avviati lungo un sentiero dove erano stati uccisi a colpi di mitra. Quattordici corpi erano stati ritrovati nel boschetto da alcuni contadini poco più tardi, di cui solo tredici erano stati identificati e composti in una stanza di una vicina cascina. Tra essi c’era anche quello,  martoriato, di un noto sindacalista.

   Della quattordicesima vittima invece, identificata in un primo tempo come John Armstrong, capitano dell’esercito britannico nella qualità di agente del SOE, lo Special Operations Executive, non era stato noto, per anni, il luogo di sepoltura. E per anni, di questo caduto, non si è conosciuta nemmeno la vera identità.

   Una stele, posta sul luogo nel dopoguerra, ricorda i tredici. L’ultima vittima, Gàbor Adler, alias Capt. John Armstrong, dovrà aspettare sessant’anni per essere onorata. Ora anche lui ha una lapide che lo ricorda ed una degna sepoltura nel riquadro 5 delle vittime politiche nel Cimitero Monumentale della Capitale.

   L’ultimo messaggio, che aveva ricevuto dalla sua compagna di prigionia, in codice, per non essere riconosciuta, portava scritto: “DA LI’ ESCO. N.”

   Così finisce la storia di Gàbor, l’ungherese.

NOTA. Nel sogno il protagonista appare con il nome di Béla Grador, che non è altro che l’anagramma di Gàbor Adler; la frase “DA LI’ ESCO. N.” è l’anagramma di Neda Solic.

(continua)

 

di Maurizio Chiararia

Print Friendly, PDF & Email