Prendere a calci un cane non è conveniente

Antonella

Costa caro prendere a calci un cane: condanna penale, multa, spese per il dolore patito dall’animale e risarcimento del danno morale subito dal padrone, oltre alla rifusione delle spese di giustizia.

Corte di Cassazione, Sez. II Penale, Sentenza n. 47391 del 21 dicembre 2011

Un problema non infrequentemente dibattuto e di eminente attualità è quello concernente la valutazione sulla liceità dei comportamenti dell’uomo nei confronti degli animali e la risarcibilità dei danni di natura non patrimoniale subiti dai proprietari di animali (per lo più d’affezione) a seguito della morte o del ferimento del proprio “pet”, che siano derivati da condotte colpose o dolose altrui.

La descrizione diramata ai media dalle più disparate fonti delle raccapriccianti vicende contemplanti il maltrattamento gratuito di animali è terribile ed impietosa. L’orrore etico suscitato dagli atti di violenza e crudeltà che esplodono in ogni istante nei confronti del mondo animale, è un tragico esempio di intolleranza, foriera di un contegno eticamente inaccettabile ed illegale ritenuto degno di censure afferenti ad uno spaccato di ignoranza e degrado difficilmente commentabile.

Dalla Cassazione arriva una sentenza che alle persone violente con i cani degli altri, farà perdere il vizio. Un uomo di 71 anni, è stato infatti condannato dalla Suprema Corte, per il reato di danneggiamento di animali altrui, previsto e punito dall’articolo 638 del Codice Penale, alla multa di 200 euro e a risarcire con altri 300 euro il dolore patito dai vicini ai quali aveva preso a calci il cane, ammettendo anche di averlo fatto.

L’imputato, senza successo, ha cercato di evitare la condanna “per danneggiamento di animale altrui” sostenendo, in Cassazione, che il cane da lui «sbattuto a terra e preso a calci» non aveva riportato alcun «danno giuridicamente apprezzabile», nessun «deterioramento».

I Giudici della Suprema Corte, non hanno considerato affatto questa tesi sostenendo che «la sintomatologia rilevata al momento della visita da parte del veterinario era dimostrativa di un processo patologico ancora in corso, come tale integrante malattia e quindi deterioramento». Durante la visita, il dottore aveva infatti riscontrato «dolorabilità del cane a livello del carpo sinistro e della zona mandibolare sinistra» e tanto è valso ad implicare la sussistenza di un danno giuridicamente apprezzabile ai sensi dell’art. 638 C.P, dunque sufficiente a integrare il deterioramento richiesto dalla previsione edittale (Art. 638 Uccisione o danneggiamento di animali altrui :  “Chiunque senza necessità uccide o rende inservibili o comunque deteriora animali che appartengono ad altri é punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a lire seicentomila.”).

Inutile poi l’acrobatica difesa dell’aggressore, volta a dimostrare che nonostante i calci inflitti al cane quest’ultimo continuava a gradire le coccole.

Le eminenze grigie di Piazza Cavour hanno respinto anche questo ulteriore rilievo difensivo convalidando, oltre alla condanna per i calci inflitti all’animale, anche il risarcimento dei danni morali patiti dal padrone in conseguenza del ferimento di Fido, oltre alla rifusione delle spese di giudizio anticipate dal padrone della “vittima” a quattrozampe, costituitosi parte civile.

Per la configurazione della fattispecie di reato la Suprema Corte sembra non richiedere la lesione permanente nell’animale, essendo sufficiente una sofferenza a carattere transitorio : pertanto sussiste il reato anche nel caso in cui all’animale sia stata cagionata una lesione guaribile in breve tempo.

I giudici di legittimità, ad abundantiam, rilevano che per le lesioni all’integrità fisica dell’animale è sufficiente il verificarsi di una malattia che determini un’alterazione anatomica o funzionale, anche non definitiva.

Quanto al profilo della delimitazione dell’oggetto della tutela giuridica, dal riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni morali in capo al proprietario, trapela come l’oggetto tutelato dall’ordinamento e proprio del reato in questione, sia il sentimento verso gli animali, ovvero la sensibilità degli esseri umani nei confronti degli animali e non gli animali stessi quali esseri viventi capaci di percepire con dolore comportamenti non ispirati a simpatia, compassione ed umanità.

L’attenzione è ora incentrata sulla relazione affettiva tra l’uomo ed il suo cane, interazione che non può non ritenersi un bene della personalità e come tale costituzionalmente garantito, laddove in passato l’impianto normativo era concepito a tutela dell’integrità del patrimonio dell’individuo e l’animale era preso in considerazione per il suo valore economico, pertanto tutelato solo indirettamente, in quanto riconosciuto proprietà di qualcuno.

La rapida lettura dei testi e uno sguardo alla loro collocazione nel codice, confermano quanto si è lontani da quella tutela diretta dell’animale, anelata da chi respingendo un assetto edificato sulla centralità dell’uomo, è orientato al rispetto per ogni forma vivente e senziente.

Ad oggi nonostante le aperture interpretative operate dalla giurisprudenza di Cassazione, resta comunque profondamente antropocentrica la posizione nei confronti del mondo animale. Dall’esame della statuizione in esame, come dalla disamina dei principali aspetti dell’attuale tutela penale degli animali, emerge il permanere della predominante concezione classica di animale in quanto res, tutelabile, come tale, solo in via indiretta.

Ciò pone drammatici interrogativi sulla legittimità dell’esclusione degli animali non umani dalla classe dei detentori dei diritti.

Il vigente apparato normativo non riconosce all’animale l’idoneità ad essere titolare di diritti e doveri: non riconoscendogli soggettività giuridica, lo menziona sempre e solo come tramite per la tutela del proprietario.

La tutela dell’animale è funzionale insomma alla tutela del sentimento umano. Ecco che ad essere penalmente sanzionata è la lesione di un sentimento come la pietà verso gli animali, il sentimento di ribrezzo o pietà suscitati nell’uomo in seguito ai maltrattamenti subiti dall’animale, e non gli animali stessi in quanto esseri degni di riconoscimento e tutela, come tali centro di imputazione dell’interesse alla sopravvivenza ed alla minore sofferenza possibile.

Tutto ciò premesso non si esclude positivamente la possibilità di un futuro ingresso, nella nostra struttura giuridica penalistica della soggettività animale come bene giuridico autonomo.

Pur tuttavia, per non lasciar cadere nell’utopia, desideri diversi e ulteriori di tutela, sarebbe altresì indispensabile muoversi sul piano della prevenzione generale – concepita come strumento di orientamento socio-culturale – deputato ad incrementare e rinforzare gli strumenti educativi della coscienza sociale, al fine di promuovere l’accreditamento dell’animale in sé come bene autonomo di tutela nella coscienza collettiva, educandola al rispetto dei troppo spesso sopraffatti interessi altrui.

Indubbiamente il ricorso alla sanzione penale è evocativo di un forte valore simbolico, consistente nel ricollegare un pregnante giudizio di disvalore sociale al maltrattamento degli animali e da questo punto di vista, configurare come reato le fattispecie di maltrattamento è un progresso.

Tuttavia è al tempo stesso largamente inadeguato pensare di affidare la tutela animale prevalentemente a interventi punitivi ex post, che si verificano cioè dopo che il maltrattamento è avvenuto, se questi non siano coordinati con una fitta rete di misure normative, educative e sociali che gestiscano le relazioni effettive tra esseri umani e animali in quanto esseri dotati di sensibilità.

 di Antonella Virgilio
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