Il lotto 285 – capitolo tredici

“Sogni incubi sono per il sonno eterno le immagini di vita, com’è per il sogno dei vivi la morte.”

Giacomo Debenedetti

Nonostante questo continuo via vai di persone che all’improvviso avevano affollato la sala d’aspetto della stazione, trovai una panchina su cui sedermi a ridosso dell’entrata così da poter finalmente addentare il panino che nel frattempo avevo estorto, non senza qualche difficoltà, dalle mani di una nugola di affamati che circondavano il carrello delle vivande e, riuscito com’ero a prendere anche una bibita, mi accinsi a consumare quel pasto frugale, sotto gli occhi famelici di decine di avventori che popolavano la sala. Nel frattempo i treni passavano all’esterno, un po’ rallentando, ma senza fermarsi. Qualche persona riusciva a salire all’ultimo momento sul predellino di coda, lanciando occhiate di giubilo alle persone che attendevano invano. Qualcuno lanciò attraverso il finestrino le valigie che probabilmente facevano parte del bagaglio dei fortunati ormai sul treno, ma poi i binari si fecero deserti, anche se ancora ingombri di poche persone speranzose in attesa del il prossimo convoglio.

Era notte ormai e vidi parecchi potenziali passeggeri cominciare ad accasciarsi sulle poche panchine rimaste libere, coprirsi alla bell’e meglio dei panni leggeri che indossavano, e tentare di prendere sonno sotto la flebile luce delle lampade di servizio. Intere famiglie avevano trovato un giaciglio sul pavimento, madre e padre con i loro piccoli fra le braccia e i vecchi accanto freddolosi ed inquieti. Alcuni giovani sostavano lungo i muri fumando e guardandosi intorno in attesa che qualcuno si alzasse per prendere il suo posto. Io, per me, riuscii, anche se a malincuore, a mantenere la mia postazione, e dopo aver sgranocchiato quel povero panino e bevuto quella bibita per me troppo dolce e gassata, mi stesi lungo la panchina, cercando prendere sonno anch’io. Ma i miei occhi vagavano ancora aperti sul soffitto che mi sovrastava e, senza volerlo, cominciai ad esplorarne i particolari. Notai una macchia grigiastra che si estendeva per buona parte di esso, forse un’infiltrazione d’acqua che rendeva l’intonaco variegato di macchie scure, tendenti al rossiccio, che mi fecero incuriosire per le loro forme, quasi fossero un affresco dipinto da qualche mano inesperta. Nella mia fantasia esaltata quindi ebbi l’impressione di scorgere in quei tratti delle figure ben nitide, anche se rozzamente delineate. Sul lato sinistro vidi,  ne sono certo,  quella che sembrava la sagoma di un bisonte, con la gobba prominente,  che si avventava su una figura ancora indistinta, eretta, sulla destra, dall’aspetto femminile, con un drappo multicolore che la copriva interamente e con in testa una corona formata da quattro colonne che svettavano come torri di un castello immaginario. La visione che mi era apparsa davanti agli occhi non so se fosse scaturita dalla mia fantasia o rappresentasse realmente un qualche segno di un dipinto fortuitamente costruito da semplici macchie sul soffitto, ma tale era quello che percepivo e che ben presto accostai ad una situazione che vivevo in quel momento. Forse il bisonte rappresentava la nazione che aveva aggredito buona parte dell’Europa, lasciando dietro di sé fame e distruzione, e la figura femminile in vesti multicolori (o, meglio, tricolori, tendenti al bianco, al rosso e al verde) rappresentava l’Italia, come regina (o madonna) che affrontava intrepida il nemico. Non mi nascosi che quell’iconografia che i miei occhi costruivano tra il sonno e la veglia fosse ispirata alla retorica di fine secolo, riprodotta in immagini su manifesti e copertine di giornale che avevo visto da bambino o su quegli opuscoli profumati che si trovavano allora nelle botteghe dei barbieri, ma mi dissi anche che quel bisonte, qualunque cosa rappresentasse, andasse combattuto adesso per salvare l’integrità della nostra patria.

Dopo quella visione cercai di addormentarmi, anche se il rombo dei treni, il ronfare dei dormienti e i gemiti dei bambini non mi aiutavano certo a tale scopo. Per fortuna a quell’ora di notte passavano pochi convogli, perlopiù merci. Alcuni di essi trasportavano cannoni a lunga gittata, poggiati su enormi strutture metalliche collegate a cingoli. Pensai ancora una volta alla mia missione che mi ero prefigurata da tempo e, con quella certezza, caddi in un sonno agitato, come spesso mi era accaduto in quegli ultimi giorni.

Verso la mattina, ancora intorpidito e dolorante per quell’essere stato disteso sulle dure assi della panchina, mi alzai, sgranchendomi un po’ la schiena e le gambe, e mi avviai verso l’uscita che dava sulla banchina. Il carrello con le vivande non era ancora comparso, così mi sedetti in un angolo in attesa di un caffè che, sapevo, nelle stazioni era particolarmente buono, caldo e confortante. Dopo qualche minuto percepii un forte spostamento d’aria e vidi una locomotiva che sopraggiungeva, sbuffando ed arrancando sulla lieve salita che portava alla stazione. Dietro di essa mi passarono davanti, sferragliando, alcuni vagoni piombati, con delle esigue finestrelle difese da sbarre. Mentre il convoglio proseguiva senza nemmeno rallentare la sua corsa, riuscii a vedere, posta sul fianco dell’ultimo vagone, una scritta bianca stampigliata, in basso, quasi vicino alle ruote. Era forse, pensai, la sigla identificativa del treno, ma quando la vidi scorrere veloce davanti ai miei occhi ebbi quasi un soprassalto nel leggerla per intero, e mi appoggiai al muro, quasi volessi nascondermi in un suo anfratto per difendermi da quella sorprendente visione. La scritta era formata da numeri e lettere come, presumevo, dovessero essere le sigle dei treni nazionali, ed era questa: ILL8285, che, letta in sequenza, diventava IL LOTTO 285. Non seppi mai, né volli sapere in seguito, se la scritta ricorresse su tutti i vagoni del convoglio, né dove esso fosse diretto. Soltanto un mese più tardi, arrivato che fui alla città, realizzai quale poteva essere la funzione e la meta di quel tetro convoglio.

(continua)

di Maurizio Chiararia

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