Per la Cassazione anche la prostituta deve pagare le tasse!

Antonella

Anche le prostitute dovrebbero tenere le scritture contabili ai fini della tassazione del reddito.

L’argomento della tassabilità o meno dei proventi derivanti dall’esercizio della prostituzione non rappresenta certamente una novità assoluta nel panorama offerto dal diritto tributario, essendosi proposto in varie occasioni da alcune parti politiche e sociali l’esigenza e l’opportunità di assoggettare a tassazione tali forme di entrate reddituali.

Tuttavia, la questione non può essere ridotta esclusivamente al dilemma sulla tassabilità o meno di tale tipo di reddito, ricomprendendo al suo interno alcune problematiche senz’altro degne di attenzione e di analisi nell’ottica di una visione d’insieme più articolata e complessa.

Da una disamina dell’attuale situazione ordinamentale si può ritenere che nel sistema penale italiano la prostituzione non è affatto proibita o oggetto di alcun divieto previsto da norme criminali: una persona può, liberamente e coscientemente, cedere le proprie prestazioni sessuali in cambio di un corrispettivo in denaro od in altra utilità economicamente apprezzabile.

La prostituzione da parte dello Stato è insomma tollerata, il quale non la proibisce, prendendo, così, atto di un fenomeno sostanzialmente ineliminabile e presente in tutte le società civili, sia pur ritenuto non consono alle regole etiche e ai parametri del buon costume.

Ad essere vietate, invece, sono le attività di sfruttamento e di favoreggiamento della prostituzione, che sono esplicitamente represse dall’art. 3 della legge del 20/2/1958, num. 75 (cosiddetta Legge Merlin).

Dal punto di vista tributario, non esiste alcuna norma che, direttamente od indirettamente, disciplini la prostituzione, ma è indubbio che il fenomeno esiste ed è degno di attenzione anche da parte dei tributaristi, per lo meno in considerazione della necessità di dare compiuta attuazione del disposto dell’art. 53, comma 1, della Costituzione per cui “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, principio sulla base del quale, non si può ritenere ammissibile che determinati soggetti possano eludere al dovere di contribuire al sostenimento dei costi collettivi, di cui essi stessi beneficiano.

Caratteristica fondamentale affinché di capacità contributiva possa parlarsi è l’onerosità, ad opera di una delle due parti, che ricondurrebbe la fattispecie al negozio giuridico della cessione di un bene o della prestazione di un servizio.

Nessun dubbio sul fatto che essa sussiste pure nel caso della prestazione della prostituta, la quale cede un servizio di carattere sessuale contro un corrispettivo generalmente predefinito mediante una rapida “trattativa negoziale” con il suo cliente.

Verificandosi, quindi, l’effettuazione di una prestazione di servizio, per quanto avente come sua precipua caratteristica la natura sessuale di quest’ultimo, e la sua onerosità, non dovrebbero esservi dubbi sulla definizione di reddito da attribuire alla somma così percepita in seguito al mercimonio del proprio corpo.

Dal punto di vista giurisprudenziale, recentemente si è aperto un varco alla possibilità di attuare un’ imposizione su tale tipo di attività e sul reddito così sviluppato.

Con una recente pronuncia la Corte di Cassazione ne ha dichiarata lecita l’attività, ritenendo che i proventi  derivanti dall’attività di prostituzione sono equiparati ai guadagni derivanti da tutte le altre attività economiche. Di conseguenza, il meretricio dovrebbe essere un’attività tassabile a tutti gli effetti.

Secondo la Corte, infatti, l’attività svolta da “chi coltiva relazioni lautamente pagate” pur essendo un’attività sicuramente discutibile sul piano morale, non può essere certamente ritenuta illecita, e, quindi, va sottoposta a tassazione.

Dunque i ricavi ottenuti con lo svolgimento  “del mestiere più antico del mondo”, “ il sesso a pagamento” debbono essere, considerati “redditi tassabili” essendovi dazione di danaro.  Così La Corte di Cassazione sostanzialmente, con la sentenza n. 20528 del 1/10/2010 ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate che avanzava pretese fiscali sul lavoro svolto da una ballerina prostituta.
Le eminenze grigie hanno dunque sancito che devono essere assoggettati ad IRPEF ed IVA i proventi di una ballerina che offre “prestazioni extra” ai propri clienti dietro compenso.

Il problema resta in quale categoria reddituale inquadrare l’oggetto di tale attività.

La Suprema Corte sembra infatti lasciare agli esteti del diritto tributario la qualificazione del reddito prodotto, posto che, nella legislazione italiana della tassabilità dei fatti leciti, questi devono essere inquadrati in una categoria reddituale.

Ma se così è, l’esercizio da svolgere è quello dell’inquadramento in una delle categorie previste (art. 6 del TUIR): non certo quella di lavoro dipendente, che vorrebbe dire che al di sopra della lavoratrice ci sarebbe un soggetto che la organizza, assumendosi il rischio dell’attività e ritraendone i frutti, con emolumenti elargiti alla prestatrice d’opera; residuano le attività del lavoratore autonomo e/o quella dell’imprenditore. Forse, più la prima che la seconda : dunque, dovrebbero essere soggetti ad imposizione fiscale tutti i proventi derivanti dallo svolgimento abituale della attività di prostituzione in quanto assimilabili ai redditi da lavoro autonomo. Con conseguente problema di iscrizione ad albi e/o a pubblici registri.

Naturalmente per la materia fiscale le attività autonome presuppongono obblighi collaterali, quali l’apertura della partita Iva, il classamento dell’attività, la tenuta delle scritture contabili.

Il dettato di tale sentenza porterà senza dubbio vantaggi per l’Erario dello Stato Italiano, il quale dovrà anche spiegare a coloro i/le quali vorranno mettersi in regola come fare ad aprire la partita Iva e quali sono gli obblighi contabili per la specifica attività che consentano, a consuntivo, di poter regolarmente dichiarare il reddito annuo, con possibilità di versare i contributi e percepire una pensione.

Orbene, considerata la mole di prostitute, escort e hostess immagine che non fanno la fattura, con cifre evase che ammonterebbero presuntivamente a circa 1,2 MLD di euro, questa sentenza farebbe proprio felice l’Erario, in quanto assicurerebbe una fonte cospicua di risorse destinate a risollevare le sorti del Paese, senza grosse riforme strutturali.

Resta un problema di fondo : “ufficialmente” le prostitute non esistono, proprio perché la prostituzione in Italia non è né proibita né illegale, ma tollerata. Tuttavia non è neppure normativamente riconosciuta. Il fatto che lo stato non le riconosca come delle professioniste come tante altre è un problema legislativo oltreché culturale.

Legislativo perché non esiste allo stato attuale alcuna qualifica professionale, associabile al sistema fiscale italiano, che consenta a una prostituta di “mettersi in regola”.

Ed è un problema culturale perché in realtà la prostituzione è dalla società, considerata una cosa deprecabile, una piaga.

Ed il fatto che questa posizione culturale sia netta, non ha mai consentito la promulgazione di una legge ad hoc.

All’interno dello stesso Parlamento c’è chi come la Carfagna ha bollato come scandalosa e immorale la proposta in discorso dichiarandosi“assolutamente contraria a qualunque forma di regolarizzazione e legalizzazione della prostituzione, in quanto offensiva e lesiva della dignità delle donne”: così commentando l’emendamento che prevede la tassazione del lavoro di prostitute.

C’è chi invece, più opportunamente, crede che, se invece la prostituzione venisse regolamentata sarebbe possibile censire coloro che svolgono anche questa attività e sottoporla ad un regime fiscale come chiunque altro svolga un’attività professionale. Per non tacer del fatto che la proposta incontra la fiera opposizione della Chiesa, più attenta alla facciata perbenista della società che alla risoluzione concreta del problema.

Ad ogni modo anche laddove si vincesse questa resistenza socio-culturale e si approntasse una categoria “meretrici” tra le libere professioni, le prostitute che regolarizzerebbero la loro posizione sarebbero davvero esigue.

Probabilmente lo farebbero solo quelle di poco conto, che magari battono in strada e che dunque sarebbero sotto l’occhio vigile della Guardia di Finanza, la quale farebbe controlli di libri contabili e di fatture.

Quelle che esercitano la professione in altro modo, le prostitute di alto livello (le chiamano escort adesso con un termine perfettamente intercambiabile, ma sicuramente rappresentativo!), i cui cahet sono redditi a tutti gli effetti, non avrebbero alcun beneficio a “mettersi in regola”.

Tranne che per un aspetto : il riconoscimento della natura reddituale degli importi così percepiti, potrebbe portare ad ammettere anche la risarcibilità del danno arrecato dal fatto colposo di un terzo all’attività di prostituzione a causa di un incidente stradale e condurre alla risarcibilità del danno emergente e del lucro cessante. Curioso!

Per tutto il resto il loro regolare inquadramento sarebbe foriero di tutta una serie di diseconomie evidenti che lo relegherebbe ad un profilo da manuale e niente più.

Per cominciare dovrebbero dare allo stato tra il 30 e il 40% di quello che incassano, ammesso e non concesso che fatturino ogni prestazione.

Nella realtà sappiamo molto bene che chi può evadere il fisco lo fa serenamente e non esiste categoria che evade maggiormente di quella dei prestatori d’opera professionale, il cui servizio sia pressoché impalpabile.

Le prostitute che pagherebbero sarebbero pochissime. E finirebbero anche con il lavorare poco e niente visto che in tutto ciò dovrà tenersi in considerazione l’imbarazzo del cliente di turno a consegnare al suo commercialista la fattura commerciale per tale particolarissima prestazione d’opera!

Ma c’è dell’altro : si potrebbe arrivare a sostenere che se lo Stato imponesse delle tasse alle prostitute si porrebbe nella paradossale situazione di sfruttare la prostituzione, che è un reato, e questa situazione sarebbe contraddittoria in quanto lo Stato non può commettere reati.  Anche se a ben guardare “far pagare le tasse” non può essere paragonato allo sfruttamento, altrimenti tutti i lavoratori italiani sarebbero sfruttati dallo Stato.

Il fatto è che per una questione di equità ed uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non si può concepire la detassazione di un comportamento, quale è quello di chi vive dei proventi della propria attività di prostituta, traendone, ad ogni modo, i mezzi di sussistenza per la propria vita al pari di qualunque cittadino impiegato in un’ attività, autonoma o dipendente, ritenuta più normale e meno scandalosa.

Diversamente si verificherebbe il paradosso per cui, quando una persona esercita una attività lecita e conforme al buon costume, deve essere regolarmente tassata ai sensi del T.U.I.R., mentre, quando l’attività è, sebbene lecita, contraria alla morale sociale, non può essere assoggettata ad alcuna imposizione. Da questo punto di vista, perciò, l’assoggettamento ad I.V.A. dell’attività di prostituzione appare teoricamente accettabile ed ammissibile e il redditometro non può e non deve far differenze essendo giusto che tutti dichiarino tutto.

Così stando le cose, la tassazione, anche ai fini delle imposte dirette dei proventi derivanti dalla prostituzione non dovrebbe essere posta in dubbio a rigor di logica. Ciò a maggior ragione in considerazione della circostanza che in altri Stati europei (tra cui la Svizzera, la Germania, la Francia, il Belgio, l’Olanda) le prostitute pagano le tasse e versano i contributi previdenziali.

E se passassero gli emendamenti le lucciole potrebbero portare alle casse dello Stato qualche centinaia di milioni di euro, (secondo alcune stime) e forse anche di più visto che il giro d’affari è stimato attorno a un miliardo di euro, roba da 90 milioni di euro al mese!

Sicuramente un filone d’oro per rimpinguare le casse dello Stato!

Purtroppo per lo Stato l’esercizio di tale attività è ad oggi ancora esente da imposizione a causa dell’assenza della fattispecie all’interno delle norme del diritto tributario.

Il vero problema però non è tanto se tassare o meno i redditi da prostituzione, quanto piuttosto la dimostrazione che effettivamente di tali redditi si tratti. Vero è che la prostituta, benché regolarmente iscritta e soggetta in quanto tale a precipui obblighi, potrebbe eccepire in sede di accertamento che i suoi redditi sono il frutto invece di elargizioni e donativi occorsi in rapporto a varie frequentazioni amicali e relazioni nel tempo intrattenute con terzi.

E in una condizione non dissimile potrebbero trovarsi anche le semplici “mantenute” amanti o simili, che vivono di regali e di generosità (oltre che di amore) che conducono un tenore di vita ben superiore rispetto ai redditi dichiarati.

Ma allo stato dei fatti un’altra considerazione s’impone : in una situazione di deregolamentazione come quella attuale, visto che in Italia abbiamo tanti evasori fiscali, ci saranno anche altrettanti sedicenti “prostitute” o “prostituti”, nel momento in cui il loro tenore di vita viene passato al setaccio dalla Guardia Di Finanza o dall’Agenzia delle Entrate.

Chi non sarebbe disposto a mentire pur di scampare all’accertamento fiscale? Se lo stile di vita disinibito e licenzioso, (pur se non propriamente etico e non consono al concetto di buon costume)  per procurarsi i mezzi finanziari per vivere non può essere fiscalmente perseguito, essendo i compensi per attività di prostituzione non soggetti ancora a tassazione, dato il quadro attuale, molti evasori potrebbero tranquillamente coprire con una bugia un’attività in nero e ad un avviso di accertamento, fornire elementi giustificativi della propria notevole capacità di spesa desumibile dai cospicui investimenti effettuati. O addirittura ricomprendere gli importi così percepiti sotto la dizione di “forma di risarcimento del danno sui generis a causa della lesione dell’integrità della dignità personale di chi subisce l’affronto della vendita di sé”, una sorta di equo ristoro per l’umiliazione subita con la vendita del proprio corpo. Edificazione difensiva praticabile e praticata, anche se sindacabile, laddove si consideri che di profilo risarcitorio potrebbe configurarsi tutt’al più nell’ipotesi delittuosa di stupro, mentre il pagamento della prestazione comprovando la volontà della consenziente ne elide la violenza e l’ antigiuridicità, palesando la sussistenza di un rapporto contrattuale e non risarcitorio.

Resta il fatto che la deregolamentazione di tale particolare fattispecie paradossalmente finirebbe, attraverso percorsi difensivi sia pure alquanto acrobatici e suscettibili di contestazioni, per apportare vantaggi anche a chi sostanzialmente è estraneo a tale particolare attività, esente da imposizione finché non interverrà il legislatore nazionale con una disciplina normativa ad hoc, che non si fermi a considerare l’immoralità di una condotta comunque produttiva di un reddito in senso tecnico, colmando la vistosa carenza legislativa che il fenomeno registra.

di Antonella Virgilio

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