Orange is the new black: il tragicomico racconto americano dei penitenziari femminili

Barbara

Chiusa la quarta stagione per le detenute di Litchfield, blindate dietro le sbarre di un sistema disumanizzato

Sono prigioni personali e fisiche quelle affrontate a Litchfield, fra le mura carcerarie della serie televisiva Orange is the new black, di cui è stata appena trasmessa la quarta stagione su Netflix. Orange come la tuta indossata dalle detenute all’interno del penitenziario, un colore caldo, positivo, e black, come la tinta cupa che valorizza chiunque, un trend stilistico. La serie gravita intorno a questo bipolarismo concettuale che riassume, perfettamente, il registro delle quattro stagioni trascorse: un’antologia del piccolo schermo in cui l’arancio, il comico, la gag, si alternano alle vicende drammatiche, alle ingiustizie e all’amaro da digerire nella storia di ogni detenuta, raccontata attraverso flashbacks personali. Ebbene, stavolta è il black a tenere le redini della serie, concepita come un progressivo viaggio dell’eroe verso la redenzione, un discendere negl’inferi (intimi o carcerari) per cui è richiesto un prezzo molto alto da pagare. La nota originale della serie, però, è che gli eroi di Orange is the new black non solo sono detenute, imperfette e colpevoli, ma che all’interno di un carcere siano proprio loro a rivelare un’umanità inaspettata. Non avviene cioè una banale ripartizione di “bene” o “male”, inducendo automaticamente lo spettatore a schierarsi dalla parte dei buoni, ma piuttosto ci si trova di fronte ad una rappresentazione approfondita delle conseguenze di alcune scelte, indotte da stili di vita miserevoli, dalla povertà, dalla tossicodipendenza, dalla malattia mentale, dall’abbandono e dall’incapacità di comunicare, incipit delle storie delle protagoniste. La vita è questione di scelte, che vanno scontate certo dietro le sbarre, ma da cui si può imparar molto. Avviene così, per esempio, che Dogget, ex tossicodipendente e cattolica militante, ignorante, aggressiva e lasciva con gli uomini, solo dopo aver subito violenza da un suo secondino acquisisca “saggezza”, riuscendo a perdonarlo e a riappropriarsi di una sua dignità personale. Un viaggio dentro se stessa con un trauma sulle spalle (o una croce), affrontato affianco di un Dio non più aggressivo, ma misericordioso anche verso i peccatori più reticenti. Così come per Dogget, anche le sue compagne di cella dovranno affrontare un proprio percorso di “liberazione”, soggettiva e collettiva. È quello che succede quando, per sopravvivere ento le mura del carcere, emerge la complicità (e corruzione) di secondini e guardie, l’incapacità emotiva e professionale degli assistenti sociali e dello staff che dovrebbe sorvegliarle. A gettare la miccia, la loro totale mancanza di empatia umana verso le detenute. Fra una lotta di gang ispaniche, caucasiche e afroamericane, avviene un’alleanza molto pericolosa contro la squad del sistema penitenziario, braccio governativo che le obbliga a barbarie e sevizie con l’occhio, accondiscendente o fin troppo sottomesso, dei responsabili, quest’ultimi alle prese con la mancanza di fondi e di un progetto formativo che reintegri efficacemente le detenute nella società. Esagerazione da schermo? Sì, ma al fine di un buon prodotto d’intrattenimento intelligente, che induce alla riflessione. C’è da dire, poi, che la serie ha un fondo di verità. È la storia di Piper Chapman, nella realtà Piper Kerman, scrittrice finita dietro le sbarre per aver partecipato al riciclaggio di denaro dal traffico di stupefacenti su scala internazionale. L’autrice ha raccontato la sua esperienza di un anno di detenzione nel libro omonimo Orange is the new black, da cui è stata tratta la serie. Oggi il libro rappresenta un punto di partenza per una riflessione sulla condizione delle carceri femminili americane, ricordando un’importante lezione. Esistono diversi tipi di prigioni nella vita di ciascuno di noi, si può finire dietro le sbarre per un reato ed esaurire gli anni di condanna, ma la vera prigione è quella in cui combattiamo con noi stessi. Siamo solo noi a dover scontare la pena di ciò che c’infliggiamo, inducendoci spesso a scelte sbagliate.

di Barbara Polidori

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