“Ragazzi di vita”, i pischelli di Pasolini 61 anni dopo

Martina Annibaldi

“Tu sapessi che cosa è Roma! Tutto vizio e sole, croste e luce: un popolo invasato dalla gioia di vivere, dall’esibizionismo e dalla sensualità contagiosi, che riempie le periferie”. Era il Giugno del 1952 quando Pier Paolo Pasolini scriveva questa parole al poeta Giacinto Spagnoletti. Travolto da quella violenta, istintiva, amorale autenticità dei pischelli del sottoproletariato romano. Tanto lontani dal mondo minuto lasciato a Casarsa, quanto dagli ideali di una società piccolo borghese che, in capo a pochissimi anni, avrebbe spazzato via ogni forma di particolarismo. Pasolini questi ragazzi li osserva da vicino, ne esamina la gestualità, il modo di vestire, la parlata.
Nel 1955, il frutto di questa esperienza si concretizza con la pubblicazione di Ragazzi di vita. A distanza di 61 anni dall’uscita del romanzo, i pischelli pasoliniani finiscono per la prima in scena con uno spettacolo che porta la firma di Massimo Popolizio .
In scena dal 26 Ottobre al 20 Novembre al Teatro Argentina, lo spettacolo chiude mirabilmente l’anno pasoliniano. Popolizio riesce infatti nell’impresa più difficile : la fedeltà.
Il regista, nonostante le difficoltà legate alla costruzione episodica del testo, non tradisce il senso ultimo del messaggio pasoliniano, restituendo agli occhi degli spettatori non un insieme scollato di frammenti, ma un racconto circolare, all’interno del quale è perfettamente riconoscibile la trasformazione sociale e culturale di quello che potremmo definire il personaggio cardine del romanzo ( se non lo si vuole identificare con un tradizionale protagonista) ,il Riccetto. Riccetto che, alla fine dello spettacolo, appare al pubblico esattamente come lo stesso Pasolini lo descriveva a Livio Garzanti : “ Ormai perso tra gli altri, anonimo: un giovanotto o quasi, che fa il manovale a Ponte Mammolo, chiuso nell’egoismo, nella sordidezza di una morale che non è la sua”.
Acutissima, a tal proposito, la costruzione della scena finale. Il regista, che ha portato avanti la narrazione selezionando alcuni episodi chiave, si affida al metateatro, mettendo su quella che sembra una via di mezzo tra una riunione di condominio ed un’aula di tribunale. Sedute sui loro zozzi scranni, le figure del sottoproletariato romano osservano la scena della morte di Genesio, l’indifferenza perbene del Riccetto, che si allontana, mani in tasca, con la maglietta e le scarpe nuove. Su di lui, lo sguardo carico di un silenzioso giudizio che sembra venire da un passato già dimenticato.
A fare da filo conduttore, nel dipanarsi dei frammenti, un egregio Lino Guanciale al quale l’adattamento di Emanuele Trevi affida il ruolo di narratore. Insieme a lui, a calcare uno spazio scenico enormemente dilatato, altri 18 interpreti per uno spettacolo che restituisce, innanzitutto, la sensazione di quel carnale brulichio che doveva distinguere le borgate della Capitale.
Intelligente la scelta di mantenere il colorito linguistico senza trascendere in ridicole macchiette, una chicca, utile anche a spezzare il ritmo concitato della narrazione, quella del glossario romanesco-italiano a precedere la scena finale.
Quando il romanzo uscì, Pasolini subì un processo per oltraggio al pudore. Il Tribunale di Milano lo assolse, ma tanto bastò per rendere evidente l’incapacità della benpensante società italiana di accettare che alcune figure potessero divenire di interesse letterario. Tanti anni dopo, in maniera diversa, la versione teatrale ci rimette davanti ai limiti di un pubblico che, se non più attraverso la condanna, dimostra la propria incapacità di comprendere nel tentativo di ricondurre i personaggi all’interno di uno schema di valori che è ancora quello prettamente piccolo borghese. Da qui le risate suscitate dall’episodio del Froscio, piuttosto che dalla scena, tanto violenta quanto emblematica, dello scontro tra Lupo e la cagna.
A questo spettacolo, tra i tanti meriti, anche quello di averci amaramente rammentato che, in fondo, abbiamo fatto tutti la fine del Riccetto.

Di Martina Annibaldi