Don Giuseppe Diana: per amore del mio popolo non tacerò

Il parroco ucciso a Casal di Principe per mano della camorra

Don Giuseppe Diana, parroco della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, ucciso dal braccio armato della camorra, quel mostro contro cui duramente si era scagliato dall’alto del suo pulpito. Don Diana era uno di quei preti come non se ne vedono molti, di cui ci si innamora subito. Di quelli che anche chi non crede o ha scarsa dimestichezza con la Chiesa, prova un’innata stima. Perché non badano all’apparenza, esteriore ed interiore. Perché l’esempio preferiscono darlo in prima persona, rimboccandosi le maniche. E lui, Don “Peppe”, tornato nella sua terra dopo aver preso i voti, aveva capito che, per adempiere con sincerità e dedizione al proprio compito di guida morale, bisognava scendere tra la gente e assumere il ruolo di vera e propria guida politica e sociale, specialmente in un territorio dove le Istituzioni avevano lasciato un vuoto che altri avevano pensato a colmare. E questo l’ha fatto in un momento in cui il potere della camorra raggiungeva il suo apice, in cui gli Schiavone prendevano il posto dei De Falco, e come ricorda Saviano sfilavano mitra alla mano per le strade, a viso scoperto. Quando, allo stesso tempo, parlare di camorra era tabù, e anche solo ammettere la sua esistenza era cosa dura, quasi da pazzi visionari, come se si volesse gettare fango sull’onore della propria terra. Così ha capito che bisognava rompere il silenzio,  e che per strapparla dalla morsa dell’indifferenza, dal torpore del sentimento di un sistema inespugnabile, la sua gente doveva tornare ad avere speranza. Serviva qualcuno che desse il primo esempio, che si esponesse di persona.

Bisognava che si scegliesse una volta per tutte da che parte stare. La Chiesa, secondo Don Diana, aveva oramai tragicamente rinunciato al suo ruolo di guida, alla sua missione profetica. Basta allora con le predicazioni intimistiche, da confessionale; basta con il tacito assenso o col timore. Non si poteva più permettere che i riti di iniziazione tra padrino e affiliato si svolgessero in chiesa col pretesto e la ‘benedizione’ della cresima, o che si potesse ancora pensare ai clan come a vere e proprie famiglie, sul modello ‘cristiano’ da proteggere e ingrandire. E il suo pensiero e la sua missione Don Peppe Diana lo ha diffuso più che ha potuto, con la forza delle sue parole, coi suoi scritti folgoranti. Ha ricordato il messaggio dei profeti ai suoi fedeli e ha redarguito i suoi colleghi, pubblicando un oramai famoso documento assieme ad altri parroci della forania di Casal di Principe col titolo: “Per amore del mio popolo non tacerò”, distribuito in centinaia di copie il giorno di Natale del 1991. Qui ha ricordato che: «l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili» e ancora: «Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili (Lam. 3,17-26)».

Per l’amore del suo popolo, Don Diana non ha taciuto fino a quando quella mattina del 19 marzo 1994, nella sua chiesa, poco prima di celebrare messa, il suo assassino non lo ha ucciso con cinque colpi di pistola. Un assassinio di cui ora conosciamo esecutori e mandanti, ma il cui movente rimane ancora incerto. Sappiamo che fu Giuseppe Quadrano, quella mattina alle sette e venticinque, a entrare in chiesa e chiedere: “chi è il parroco?”, prima tirare fuori la pistola. E sappiamo che fu Nunzio De Falco, detto ‘O lupo, ad ordinarglielo. Quel De Falco oramai spodestato, a cui era stato assegnato un territorio lontano, l’Andalusia. Forse un tentativo di riconciliazione col clan degli Schiavone, un pegno di fedeltà. Don Peppe Diana diventava sempre più scomodo. O forse più probabilmente un tentativo di dare un duro colpo all’ascesa del nuovo clan, di ritardarla, riempiendo il casertano di polizia e media in un momento in cui Francesco ‘Sandokan’ Schiavone era latitante. Le due fazioni s’impegnarono fin da subito a dimostrare la loro estraneità al fatto, addossando l’una la colpa all’altra. Schiavone promise alla famiglia Diana che, una volta trovato  l’assassino, l’avrebbero fatto a pezzi e lasciato sul sagrato. Pagando morte con morte. Riscattando la vita di Don Peppe con la moneta contro cui lui si era scagliato per tutta la sua giovane vita. Tentarono, allo stesso tempo, di infangare la sua memoria: voci in giro dicevano che fosse lui stesso un camorrista, che usasse la sua chiesa come deposito delle armi dei clan. Il Corriere di Caserta qualche tempo dopo titolava: “Don Peppe Diana era un camorrista. De Falco ordinò l’omicidio del sacerdote perché custodiva l’arsenale dei Casalesi”. Bisognava smontarne il mito, scoraggiare i casalesi a seguire il suo esempio.

“Casalesi non è il nome di un clan, ma il nome di un popolo” recitava uno striscione in onore di Don Diana; una volontà di riscatto di un popolo sulle orme della via tracciata da quel giovane parroco che stava insegnando loro ad alzare la testa contro quella “forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana”. Con le armi della parola: non tacere. Non tacere davanti ai soprusi, non accettare passivamente gli abusi, per paura o per cupidigia. E adesso che le mafie sono classe politica e imprenditoria economica, Stato e paraStato, rimane ancora un’unica soluzione, sempre quella che Don Peppe Diana ci ha mostrato: per amore di noi stessi e del nostro popolo, non tacere.

di Simone Cerulli

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