Giuseppe Valarioti, la lotta alla mafia come programma politico

Giugno del 1980 era, come oggi, un mese di sfide politiche, di amministrative, provinciali e regionali. C’erano però altri valori da innalzare e da difendere, altri problemi da affrontare. Altre parole chiave da pronunciare.
Quelle di Giuseppe Valarioti, segretario del Partito Comunista Italiano di Rosarno, erano lavoro, diritti e lotta. Non poteva essere altrimenti per un figlio di contadini, cresciuto tra i campi e i libri di latino e greco, diventato uomo dietro la cattedra da insegnante e nella sezione del suo partito.
La lotta, quella dei braccianti agricoli, degli studenti per il loro diritto allo studio, la lotta per un’occupazione libera dallo strapotere ‘ndranghetista e dalla collusione del potere politico e istituzionale con la mafia. La fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80 vedono la ‘ndrangheta apprestarsi al salto di qualità. Non gli bastava difendere gli interessi dei grandi proprietari terrieri, dominare negli appalti di costruzione, arricchirsi con il lavoro degli altri. Ora voleva salire più in alto, voleva comandare veramente, senza apparire criminale.
Il salto di qualità è entrare in politica, guidare le istituzioni. A Rosarno lo hanno capito in molti e tra loro Giuseppe Valarioti. “Da quel momento alla lotta per il lavoro unimmo quella contro la ‘ndrangheta. Nel voto del 1980 i capibastone furono tutti in fila – racconta Giuseppe Lavorato, dirigente PCI – La campagna elettorale fu infuocata. Nei nostri comizi il tema centrale fu la lotta contro i boss mafiosi, per isolarli e sconfiggerli”.
Quelle elezioni premiano incredibilmente il PCI di Valaroti. È una svolta epocale, i quartieri popolari si riversano in strada per celebrare la vittoria. La sera invece, candidati e dirigenti vanno a cena per festeggiare. Nel cortile della trattoria però la lupara mafiosa uccide Giuseppe Valarioti, aveva 30 anni.
Il fine dell’assassinio era mantenere inalterati i rapporti di dominio sulle attività economiche della Piana di Tauro. Il fatto scatenante invece fu lo scontro politico che la mafia sentì come sfida pericolosa per il suo prestigio, per il suo potere, per i suoi progetti. L’opera e le parole di Valarioti erano un atto di lesa maestà.
Il processo del 1982 vide come imputato il capobastone Giuseppe Pesce, poi prosciolto per mancanza di prove. Non bastarono nemmeno le parole, appena un anno dopo, del pentito Pino Scriva che indicava in lui il mandante e Francesco Dominello come autore effettivo.
Il tutto si chiuse con l’archiviazione. Dal 2011 è stato però costituito un comitato per la riapertura delle indagini. Il fine è assicurare giustizia “ma anche e soprattutto stabilire una verità storica condivisa per recuperare e rendere attuale l’esempio del dirigente comunista ucciso”.

di Lamberto Rinaldi

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