Carmine Tripodi: il carabiniere che lavorava “troppo”

A chi oggi possiede e coltiva una cultura civile e antimafiosa, che si tratti di giovani o meno, la Locride racconta storie di faide, terrore e morte. San Luca, Bianco, Locri, sono nomi che sentiamo risuonare continuamente, e che rappresentano una macchia accanto al candore dell’onestà di chi, contro alcune realtà, combatte ogni giorno. Ma se oggi movimenti e associazioni fanno un grandissimo lavoro di diffusione e protezione della memoria, vent’anni fa chi veniva ucciso dalla mafia era solo. Viveva da solo, moriva da solo, non gliene veniva riconosciuto onore e merito.

Carmine Tripodi nel 1985 aveva ventiquattro anni. E ventiquattro anni sono pochi, in genere, per farsi troppe domande sul senso civico, su cosa è giusto o sbagliato. Sicuramente sono anni in cui si costruiscono sogni e non si va incontro – non consapevolmente almeno – a situazioni che quei sogni possono distruggerli. Ma Carmine Tripodi nel 1985 aveva ventiquattro anni e indossava la divisa. Carabiniere. A San Luca.

Negli anni ’80 essere un carabiniere a San Luca non vuol dire combattere. Vuol dire essere una minoranza non considerata, senza voce e senza potere. Ma Carmine a San Luca ci va lo stesso, fresco di formazione in Accademia. La realtà è difficile più di quanto egli potesse immaginare. In quegli anni ciò che affolla i verbali sono liste di persone scomparse, oltre che uccise. L’Aspromonte è terra di covi e sequestri, di riscatti impossibili, di persone non restituite ai propri cari. Carmine comincia a seguire queste storie, a studiare quelle passate, a intrecciare fili. A seguire nomi, cognomi, relazioni, famiglie. Ma un carabiniere che prende troppo sul serio il proprio lavoro, a San Luca non può starci, non è terra sua. E la sera del 6 febbraio 1985, a un mese dal suo matrimonio, Carmine Tripodi viene raggiunto mentre si trovava nella sua auto e ucciso da colpi di fucile e pistola, e a nulla è servito in questo caso il coraggio di fare il proprio mestiere fino all’ultimo.

La memoria che oggi si fa così forte non ebbe coraggio a mostrarsi ai suoi funerali. Il paese non piange un carabiniere, non rimpiange un disturbatore di un ordine precostituito e intoccabile. Piuttosto distrugge anche una stele commemorativa.

C’è voluto il 2011 per ascoltare un messaggio di scuse e un ricordo sincero da parte del sindaco di San Luca. Possiamo immaginare la difficoltà di certe affermazioni in un certo contesto, ma quello che ci si deve sforzare di comprendere, invece, sono le condizioni in cui carabinieri e forze dell’ordine devono operare, quando il contesto rifiuta l’arma e non riconosce la legge. Se già, a volte, nell’immaginario comune, la divisa è associata a soprusi e abusi (fermo restando che alcuni episodi della nostra cronaca confermino assolutamente questa immagine), si può solo immaginare il rifiuto e il senso di impotenza che doveva e deve provare, oggi, un operaio della giustizia in alcuni luoghi. I territori ad alta densità mafiosa non riconoscevano altra legge dalla propria ieri come non lo fanno oggi.

L’unico sostegno a chi queste “non leggi” combatte può venire solo da un riconoscimento a livello più ampio di un ruolo e di un coraggio che non può essere riassunto in dieci righe di cordoglio in occasione dell’anniversario di un assassinio, perché la memoria è rispetto, e il rispetto è soprattutto, in questo caso, azione e coscienza civile.

di Giusy Patera

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