L’una e mezza di notte

L’operatore del 118 verbalizza: non voglio morire non voglio morire, era la voce del più giovane degli operai della Thyssen Krupp.

L’una e mezza di notte. Un’ora in cui quasi tutti dormono. In quell’ora allo stabilimento Thyssen Krupp di Torino si lavorava. È la notte tra il 5 e 6 dicembre 2007. Mancano 20 giorni a Natale. Mentre Torino dorme alla Thyssen si lavora. Sulla linea 5, la maledetta linea 5, è in attività piena. Sono in attività piena anche sette operai. Sono sulla linea 5 da dodici ore.

La linea 5 è adibita al trattamento termico dei prodotti di laminazione. In quella linea si usa olio bollente per temperare i laminati. La linea 5 all’una e mezza di notte mentre quasi tutta Torino dorme si “inceppa”. L’olio bollente fuoriesce trasformando tutto ciò che è intorno alla maledetta linea 5, in inferno.

6 dicembre. 19 giorni a Natale. L’inferno impera nella linea 5. Fiamme indomabili. Nell’inferno non volevano esserci. Ma ormai le fiamme avevano chiuso le vie di uscita ai sette operai. Circondati dal fuoco hanno capito subito il dramma.

Una e 30 di notte. Maledetto estintore, non funziona. Le urla dei sette che si chiamano riecheggiano tra il crepitio del fuoco. Il calore è alto. Maledetto sistema antincendio non puoi non funzionare. Maledetto manichetta dell’acqua, perché l’attacco perde acqua? Perché, perché… perché devo morire. Non voglio morire, non voglio morire.

Qui 118… la richiesta di soccorso viene registrata come prassi dall’unità del 118. Le voci degli operai che chiedono aiuto sono registrate. L’operatore del 118 verbalizza: voce di un uomo in lontananza: “non voglio morire, non voglio morire”. Era la voce del più giovane degli operai.

L’audio di quella telefonata è ancora più straziante della trascrizione. La morte in diretta è straziante. Non poter far nulla per loro è stato straziante.

Non poteva far nulla per loro il 118. Poteva la Thyssen. Poteva l’amministrazione della Thyssen. Doveva l’amministrazione di quella fabbrica. Non l’ha fatto. Non l’aveva mai presa in considerazione l’idea di un incidente. Forse si ma il rischio si poteva correre, quella linea era in dismissione e doveva essere trasferita alla fabbrica di Terni.

Non c’è stato tempo. Sette operai sono stati bruciati nel nome del profitto. Sulla sicurezza di quella linea si poteva chiudere un occhio. La matematica dei grandi numeri avrebbe reso accettabile il rischio. Quante probabilità c’erano che qualcosa andasse storto? Poche, basse, rischio accettabile. Nella matematica dei grandi numeri però c’è un numero che non torna, che rende quel calcolo probabilistico un calcolo assurdo. È il numero 7. Sono gli operati morti. Sacrificati nella logica del calcolo delle probabilità.

Dovrebbe ascoltare l’audio di quella telefona al 118 l’amministratore delegato della Thyssen e tutti quelli che hanno in un modo o nell’altro avallato la logica del profitto. Dovrebbero ascoltarlo mattina e pomeriggio. Dovrebbero ascoltare le parole del giovane operaio: “non voglio morire, non voglio morire”. Parole strazianti.

Quella fabbrica da luogo di lavoro, diventó luogo di morte. Mancavano 19 giorni a Natale.

Si parla di sentenza storica. I vertici della Thyssen sono stati condannati. La Corte di Assise di Torino ha depositato le motivazioni della condanna a 16 anni e sei mesi per omicidio volontario all’amministratore delegato della Thyssen Krupp, ritenuto colpevole di aver cagionato la morte dei sette operai. Insieme a lui sono stati condannate altre 5 persona (senza contestazione del dolo).

504 pagine di motivazione in cui traspare un’acciaieria allo sbando, destinata alla chiusura ma ancora a pieno ritmo di lavoro.

Ora una e trenta di notte, 6 dicembre 2007. Sette operai muoiono bruciati dalle fiamme divampate dalla fuoriuscita di olio bollente della linea 5, quella per il trattamento a caldo dei laminati.

È una sentenza storica. È la prima volta che è condannato un “datore di lavoro” per fatti che riguardano la sicurezza sul lavoro.

Le motivazioni vengono depositate in 504 pagine dalla Corte d’Assise di Torino. Motivazioni che mettono a nudo le responsabilità degli amministratori della fabbrica, che sapevano e non hanno fatto nulla. Sapevano, perché già nel 2002 si era sviluppato un incendio, spento con fatica dai vigili del fuoco dopo tre giorni di duro lavoro. Sapevano, perché le compagnie di assicurazione avevano raddoppiato la franchigia. Sapevano e allo stesso tempo dirottavano i soldi per la messa in sicurezza della fabbrica torinese verso le acciaierie di Terni.

Sapevano che qualcuno poteva morire. Sette operai per loro rientravano nel calcolo dei grandi numeri. Per questo dovrebbero riascoltare l’audio di quella drammatica chiamata, di quella voce giovane che in lontananza gridava: “non voglio morire, non voglio morire”.

Dopo vari gradi di giudizio il 13 maggio 2016 la IV Sezione della Cassazione ha confermato la condanna per omicidio colposo plurimo, incendio colposo ed omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro inflitta a sei dirigenti della Thyssen Krupp, per il noto incidente avvenuto negli stabilimenti torinesi nella notte del 6 dicembre 2007 che provocò la morte di sette operai.
La sentenza definitiva ed immediatamente esecutiva, pone fine ad una delle vicende giudiziarie più celebri e discusse di sempre, da un punto di vista mediatico oltreché giuridico.
Il caso Thyssen ha fatto scuola in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Non si spegneranno nel dimenticatoio queste sette vite arse dal fuoco e della logica del profitto.

di Antonella Virgilio

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