Lotto 285 – capitolo settimo

“…Se si presentano più di quattro persone, coloro che sono in soprannumero dovranno portare i loro fucili personali e depositarli nel mio armadio. E’ infatti necessaria l’unità d’azione, senza di che non si va avanti. Del resto, i miei fucili sono del tutto inservibili per ogni altro uso, il meccanismo è guasto, il tappo si è staccato, soltanto i cani scattano ancora. Perciò non sarà eventualmente difficile procurarsi altri fucili come i miei. Ma, in fondo, per i primi tempi vanno bene anche persone prive di fucile. Noi, che siamo armati, al momento decisivo faremo barriera intorno agli inermi. “ (continua)

Franz Kafka

Non mi persi comunque d’animo e, visto che il mio anfitrione ancora cercava di tenermi compagnia con gesti rassicuranti e quasi ignorando l’inaspettato ospite che ancora intravedevo attraverso le tende, mi risedetti sul divano e attesi, anche se l’ora era tarda, che lui continuasse la sua narrazione.

 “I miei genitori, ancorché ormai più che ottantenni, in un pomeriggio di agosto dell’anno passato, erano usciti per la solita raccolta di erbe mediche che si potevano trovare nella campagna circostante. Quelle erbe mediche, quali la malva,  l’ortica e il tarassaco, avevano su di me, già avanti negli anni, un effetto benefico, assieme a certe pillole di carbone che sapevo, perché mia madre me lo assicurava, essere curative per lo stomaco e l’intestino. Erano poco distanti dalla villa quando un boato mi riscosse dal mio sonno pomeridiano. Sentii il cielo quasi squarciarsi, ed, affacciandomi alla finestra vidi con mio grande raccapriccio una nube di fumo e fiamme alzarsi nella parte della campagna dove i miei genitori erano soliti andare. Subito corsi verso il luogo del disastro ed intravidi, attraverso le fiamme e i fumi che la bomba (perché di una bomba si trattava) aveva sprigionato, i corpi ormai quasi carbonizzati dei miei. Mi precipitai quindi nel mezzo dell’incendio, cercando in qualche modo di prestare soccorso a quei corpi martoriati, ma venni investito da una vampata che mi costrinse a ritirarmi, dopo che mi ebbe causato le ustioni e le ferite che ancora vedi sulla mia carne e sul mio viso. Venimmo comunque soccorsi in qualche modo da un’ambulanza militare che si trovava nei paraggi, ma per i miei poveri genitori non c’era più niente da fare. “.

A quel punto il mio anfitrione si interruppe e vidi che aveva preso ad ansimare, quasi a voler controllare un moto di pianto che gli stava scuotendo il petto. Io cercavo di non parlare né di portargli aiuto, sapendo che in quelle circostanze fosse meglio lasciare la persona a gestire il proprio dolore senza interferenze esterne. Ma subito dopo, asciugandosi un poco gli occhi con la manica della vestaglia, lui riprese:

“E’ stata una disgrazia annunciata. Poco distante da noi si trovava una postazione nemica che aveva una delle più potenti batterie antiaeree, consistente in un grosso, lungo cannone che noi non avevamo mai visto fra le risorse militari del nostro esercito. Vi erano adibiti almeno sette militari che, insieme ai miei genitori, che si trovavano purtroppo nei paraggi, furono polverizzati dall’esplosione. Evidentemente gli aerei alleati sapevano dove colpire ma non avevano calcolato bene le conseguenze di quell’attacco. Le masserie dei  contadini, che si trovavano nelle vicinanze e le rotaie della ferrovia che passava poco distante dallo scoppio, benché colpite, non ricevettero grandi danni, tanto che i villici poterono riprendere il loro lavoro e la linea ferroviaria fù subito ripristinata.

Ed ora tu vuoi addentrarti in questi luoghi di morte e distruzione? Per recarti dove e fare che cosa? Io ti invito a passare la notte nella mia modesta dimora e domani mattina potrai decidere a mente fredda sul da farsi.”

Così cessò il parlare dell’anziano signore, che ora mi guardava con occhi speranzosi, ma io, spronato da una smania irresistibile di proseguire, e senza curarmi dei pericoli che avrei incontrato, mi dichiarai risoluto a partire all’alba del giorno dopo, sperando che nel frattempo fossi riuscito a dormire per qualche ora visto che si era fatta quasi mezzanotte.

Il vecchio mi condusse quindi ad una stanza attigua, dove trovai un soffice letto, cuscini di piume e un’ampia coperta nella quale subito mi ravvolsi, cercando di prendere sonno quanto prima possibile, ed è quello che feci senza sforzo alcuno dopo pochi minuti. Ma i miei pensieri, pur essendo caduto in un deliquio profondo, tanto che adesso non riesco a distinguere se fosse stato sogno o realtà, cominciavano a vagare incontrollati e, dopo un breve sonnecchiare, mi svegliai e mi trovai seduto sulla sponda del letto a domandarmi se quello che avevo visto non fosse stato parte di un’esperienza che mi fosse realmente accaduta e che se avessi continuato a dormire il sogno che avrei fatto non poteva avere all’interno un altro sogno, per lo più pervaso da visioni terrificanti, a meno ché non avessi nel frattempo smesso di sognare e quello che vedevo non erano altro che i ricordi di un  passato recente che avevo vissuto davvero.

Mi sforzai, quindi, da uomo razionale quale io pensavo di essere, di tornare alla realtà, con le conseguenze di trovarmi però ancora nelle medesime condizioni nelle quali mi aveva lasciato il sogno, cioè soprattutto quella di stare ancora cercando quel luogo all’interno della città che ritenevo, una volta trovatolo, fosse importante per lo sviluppo della mia vita futura. Perdipiù, nell’atto di alzarmi e volgendo lo sguardo verso le finestre del soggiorno che intravedevo attraverso la porta semiaperta della stanza in cui mi trovavo, non vidi alcun pipistrello aggrappato alle persiane. Si era quindi alzato in volo alle prime luci dell’alba o quello che adesso percepivo erano una vera casa, veri i quadri e le suppellettili che la adornavano e, soprattutto, vera la presenza benefica dell’anziano signore vidi entrare, recando un vassoio con sopra quella che speravo fosse una lauta colazione a base di caffè, di cui sentivo nell’aria l’intenso aroma, che certamente mi avrebbe aiutato ad evadere completamente da sogni o pensieri che mi avevano riempito la mente?

Comunque al suo arrivo decisi di rivelargli lo scopo della mia visita, che era quello di chiedergli se fosse in grado di indicarmi la strada per “La Sapienza”. “Forse vuole dire Tor Sapienza, la borgata?” mi corresse lui con un sorrisetto compiaciuto, ed io, che non volevo assolutamente contraddirlo, e visto che mi ero perso nella campagna a pochi chilometri dalla città, dissi “Sì, certo, la Borgata.”. E lui, di rimando, con fare gentile e premuroso, mi indicò il percorso da fare per arrivare almeno al primo centro abitato, Tor Sapienza, appunto.

“Guardi, prenda questo stradone che passa qui accanto, dopo quasi due chilometri si troverà davanti a un grande edificio bianco, di ispirazione razionalista, con finestre ad oblò. Quello è l’ex dormitorio delle giovani  volontarie del regime. Adesso è deserto, perché le hanno spostate in un luogo più sicuro. La strada asfaltata che lo costeggia la porterà a quel primo agglomerato di case basse, ancora prive d’intonaco, che vede in lontananza. Da lì inizia la Borgata di Tor Sapienza e lì passa una linea ferroviaria e lei dovrà camminare per un po’ sulla massicciata per raggiungere la stazione, ma ho il dubbio che i treni non siano funzionanti, a causa dei recenti bombardamenti.”. Non feci che seguire le indicazioni che mi erano state date, ringraziai l’uomo che, a quel punto, sembrava soddisfatto della mia scelta, per cui mi salutò con un abbraccio di incoraggiamento che non mi aspettavo, visto che in qualche modo gli avevo dato delle incombenze che forse non si meritava, e mi incamminai con passo spedito lungo il vialone che mi era stato indicato. Ma, nell’uscire dall’area che circondava la villa, notai su una piccola stradina che era ancora all’interno del campo, un piccolo camioncino di legno, di quelli che i bambini usano (o usavano, pensai, non avendo ancora  una cognizione del tempo e del luogo dove mi trovavo) per trastullarsi all’aperto, trascinando il veicolo sulla strada impolverata e facendo con la bocca il rumore dell’inesistente motore. Mi prese allora un soprassalto della memoria e vidi me stesso, da bambino, che, con una corda sottile, trascinavo il giocattolo lungo il vialetto prospiciente alla villa. Intanto l’anziano signore mi osservava, quasi di nascosto, dietro le tende socchiuse, tanto che mi chiesi chi egli fosse veramente, perché mi aveva aiutato, chi fossi io realmente e che cosa mi aveva condotto in quel luogo.

Proseguii quindi per la strada che mi era stata indicata e mi trovai ben presto ad attraversare un’ ampia distesa di papaveri in fiore, rosseggianti, cui (mi ricordai) da piccolo solevo staccare i petali, appallottolarli, soffiarvi dentro,  per farli poi scoppiare come palloncini.

Arrivai quindi al collegio femminile che il vecchio mi aveva descritto. Era un edificio in puro travertino, come la maggior parte delle costruzioni di quegli anni, con grossi oblò al posto delle finestre, tanto che sembrava, a prima vista, una nave tozza e squadrata che navigasse su un mare d’erba. Entrando dalla porta principale, che, all’apparenza,  non aveva ormai alcun chiavistello che la difendesse, mi trovai in un ampio salone, costeggiato da entrambi i lati da letti a castello, perfettamente allineati e muniti di materassi e coperte ancora intatti. Nell’aria si espandeva un intenso odore di sudore misto a profumo, che mi segnalò subito la recente presenza femminile, quella di giovani ragazze in corso di addestramento, che avevano precipitosamente abbandonato quel luogo, per ordine, pensai, dei loro stessi insegnanti.

(continua)

di Maurizio Chiararia

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