Il lotto 285 – capitolo quindici

“Mi trovai a errare per le vie di una città molto popolosa e sconosciuta: notai che era gibbosa  di collinette e dominata da un monte coperto di case. In mezzo alla popolazione di questa capitale, distinguevo certi uomini che sembravano appartenere a una nazione particolare: la loro aria viva, risoluta, l’accentuazione energica dei lineamenti, mi facevano pensare alle razze indipendenti e guerriere dei paesi di montagna, , o di certe isole poco frequentate dagli stranieri; comunque, in mezzo a una grande città e a una popolazione mista e triviale, essi sapevano mantenere ugualmente la loro personalità feroce. Chi erano quegli uomini?”

 Gérard de Nerval – Aurelia (1855)

Ancora assorto in quei pensieri, finalmente – eravamo quasi al mezzogiorno – vidi arrivare un treno che transitava nella direzione della capitale. Più che un treno si trattava di un tram, con i vagoni azzurri, che percorreva il tratto dove i binari erano più stretti rispetto a quelli ferroviarii. Doveva essere un mezzo che consentiva il trasporto di pendolari provenienti dai luoghi vicini e che quindi si fermava alle varie stazioni delle borgate attorno alla città, specialmente a quelle poste nella zona sud. Ma, mentre stavo cercando di attraversare i binari che mi separavano dal tram, che si era fermato, fui quasi travolto da una littorina che sopraggiungeva veloce nella direzione opposta, se non fossi stato tratto in salvo all’ultimo momento da una persona che si trovava sulla banchina e che aveva visto calarmi sulla massicciata. Era un militare, con tanto di mostrine e giberne, ma che arguii subito, dalla fiamma dorata che aveva sul berretto e dalle strisce rosse sui pantaloni, tre tacche sulle spalline e le foglie di acanto ricamate sul collo della giacca, che si trattava di un ufficiale dei carabinieri. Con un sorriso stentato,  trovandomi ancora abbracciato a lui, lo ringraziai di quel tempestivo salvataggio. Non sapevo, però, con chi dovevo comportarmi davanti a quel militare che pareva ancora orgoglioso della sua divisa, se con un transfuga  o con un elemento facente parte ancora del regio esercito. Quel dubbio mi venne subito tolto quando l’uomo, dopo esserci accomodati sulla panchina della stazione,  cominciò a parlare:

“La sera del 7 ottobre mi trovavo nella caserma Podgora,  al centro della città, al comando di un nucleo di  carabinieri, quando sono arrivati i tedeschi e ci hanno ingiunto di arrenderci, e ci hanno minacciato, se non avessimo subito  deposto le armi, di aggregarci alla guardia nazionale repubblichina, o di essere deportati, ci dissero a Zara o in qualche altro campo di lavoro o, peggio, fucilati, se avessimo tentato la fuga. Poi sono andati in forze alle altre caserme e stazioni per ripetere la terribile ingiunzione. Io, insieme a molti altri commilitoni, posti dinanzi a quel dilemma, nel tentativo di salvare la nostra dignità di militari, abbiamo scelto di darci alla macchia. Altri, fra cui alcuni dei miei colleghi più cari, non accettando di essere inquadrati in un esercito che non riconoscevano legittimo, furono fatti prigionieri e trascinati su treni blindati diretti al nord, lasciando così i loro beni e i loro cari.

Così mi detti alla fuga, ancora in divisa, cercando di congiungermi con quelli dell’esercito regio che adesso stanno combattendo i tedeschi. A piedi raggiunsi questa stazioncina, cercando di non essere ancora identificato, visto che durante il tragitto non trovai alcuno che mi potesse fornire degli abiti civili. Stavo aspettando un qualsiasi treno che fosse diretto a sud, sapendo che quella parte della penisola era in procinto di essere liberata dalle truppe alleate, per prendere parte, per quanto possibile, all’avanzata dei nuovi eserciti, ma avevo paura che il treno fosse preso di mira dai bombardieri, avendo assistito alla tremenda incursione aerea di due mesi fa sulla capitale.  Ho ancora negli occhi lo scempio che fecero i bombardieri, che sembravano avere come obiettivo lo scalo merci e la stazione centrale, in quella zona, ma colpirono buona parte dei quartieri vicini. Le rotaie dei tram divelte, gli alberi sradicati, il tetto dell’antica chiesa crollato, nel cimitero vicino, il più antico della città, le tombe scoperchiate che lasciavano intravedere le salme, cosicchè i cadaveri vecchi si univano, in un abbraccio ideale, ma purtroppo concreto, ai cadaveri nuovi. Vennero risparmiate soltanto le due alte torri di controllo circolari lungo i binari che portavano alla stazione, la chiesa di Santa Bibiana e il tunnel che porta al quartiere colpito e che in quei momenti era popolato di rifugiati che alle prime avvisaglie dell’arrivo degli aerei, si erano riparati là sotto. Sull’alta parete di un palazzo diroccato al centro del quartiere, benché i bombardamenti fossero stati compiuti dall’aviazione alleata, e la popolazione ne fosse cosciente,  campeggiava un’enorme scritta nero-pece che diceva: “Eredità del Fascismo”.

Io e i miei uomini fummo tra i primi a portare soccorso ai sopravvissuti. Le ambulanze militari e civili facevano la spola tra il luogo del disastro e gli ospedali, le caserme e i centri di sanità che si trovavano vicini, primo fra tutti l’Istituto di Medicina Legale che, per fortuna, non era stato colpito. Persino l’Istituto Superiore di Sanità ospitò alcuni feriti, la maggior parte dei quali venne però ricoverata nel vicino Policlinico, nella caserma militare dell’aviazione e in alcuni edifici della Università “La Sapienza.”.“

Sentendo quel nome mi venne subito in mente quello dell’agognata meta che tentavo da giorni di raggiungere, perciò cominciai a raccontare al mio interlocutore i sogni e le veglie nei quali quel nome, “La Sapienza” appunto, ricorreva spesso. Il capitano, un po’ interdetto, parve non capire quella che ai suoi orecchi suonava come una stupida fissazione. Allora gli dichiarai la mia appartenenza a gruppi partigiani in clandestinità, e che cercavo di mettermi in contatto con gli altri cospiratori ma, essendomi perso nella campagna, ritenevo “La Sapienza” un luogo (o un concetto) che andasse perseguito per tornare in città e, visto che i sogni talvolta sono profetici, avevo dato credito a quelle che mi sembravano aspirazioni possibili per la mia vita futura. La vita, infatti, più che sogno, è uno di quei sogni in cui il sognatore sa di sognare.

di Maurizio Chiararia

(continua)

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