Il presidente Trump non prende posizione contro l’omicidio del giornalista Khashoggi

Non sono bastati i legami del principe ereditario saudita Moḥammad bin Salmān con le persone sospettate dell’omicidio di Jamal Khashoggi, il giornalista dissidente e auto-esiliatosi, che il 2 ottobre scorso è entrato nel consolato arabo in Turchia e non è mai più uscito. Non è stata sufficiente neanche l’ammissione da parte del regime saudita dell’omicidio dopo più di due settimane per convincere Donald Trump a prendere con forza le distanze dallo storico alleato. Il presidente americano ha più volte cambiato opinione a conferma di quanto la questione sia considerata delicata dalla Casa Bianca.
Qualche mese fa, durante l’annuncio dei dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio, con una trovata di puro marketing, Trump aveva portato con sé, alla sua destra, alcuni lavoratori in tuta e l’elmetto sotto il braccio, definendoli “la spina dorsale” dell’America. Presentandosi da sempre come il campione dei cosiddetti blue-collar, la sua stessa presenza alla Casa Bianca è in larga parte dovuta a quell’elettorato. Non è troppo lungo il salto da eroe dei lavoratori a difensore delle multinazionali, quelle stesse che temono che i sauditi possano passare a contromisure destabilizzanti come risposta ad eventuali sanzioni americane.

La versione araba, per cui Khashoggi sarebbe rimasto ucciso a seguito di una rissa e quindi senza un ordine dall’alto, è stata giudicata ‘credibile’ da Trump. Il presidente aveva inviato il Segretario di Stato Mike Pompeo per una doppia visita a Riad e Istanbul. Proprio la Turchia è stata la prima a lanciare i sospetti e ora afferma di essere in possesso di prove sull’inchiesta.
Quella di Kashoggi non è che l’ultima di una lunga serie di vicende oscure legate alla monarchia saudita. Dai sospetti di finanziamento all’Isis, fino alla presunta detenzione forzata del premier libanese per costringerlo a ridurre i poteri del movimento Hezbollah. Il gruppo sciita è alleato dei ribelli Houti in Yemen, dove il principe ereditario saudita si è impantanato in una guerra che è già stata rinominata il ‘Vietnam arabo’ e dove la popolazione è sull’orlo di una carestia devastante. Che tutte queste ombre non abbiano fatto vacillare l’alleanza con gli Stati Uniti si può spiegare solo guardando gli interessi economici coinvolti. L’Arabia Saudita è il maggior esportatore di petrolio al mondo. Nei giorni scorsi, dopo che le critiche internazionali si facevano sempre più pressanti, il regime saudita ha fatto trapelare la possibilità di usare il petrolio come arma politica, decisione che spezzerebbe un taboo che dura dalle crisi petrolifere del ’73. La decisione di aumentare il prezzo del barile sarebbe estremamente dannosa per tutti quei settori che ruotano intorno al petrolio, e in un economia ancora molto legata all’oro nero come quella americana, le conseguenze potrebbero essere pesanti. Trump non dimentica neanche che proprio il paese del Golfo è il maggior finanziatore di start up americane e i fondi sauditi sono particolarmente influenti nella Silicon Valley californiana.

Il caso conferma ulteriormente come la democrazia sia in decisa ritirata un po’ dovunque e come i modelli autoritari vanno per la maggiore. Al regime saudita non mancano neanche le armi di ritorsione e sarà difficile riuscire a isolarlo economicamente. I paesi occidentali non trovano conveniente prendere una posizione netta. La vicenda però per la prima volta rischia di mettere in crisi il regno. Moḥammad bin Salmān, quando era salito al potere, si era costruito un’immagine da innovatore. Con il suo progetto Vision 2030, ha l’ambizione di aprire l’economia araba al mondo e sganciarla dalla dipendenza dal petrolio. Il caso Khashoggi è, però, troppo spinoso e molti colossi della finanza e dell’economia hanno ritenuto conveniente mantenere le distanze e non partecipare a quello che è stato definito la ‘ Davos del deserto’. All’evento, che ha riunito a Riad gli investitori, hanno già rinunciato giganti del calibro di JP Morgan, Credit Suisse, HSBC e tanti altri. Defezioni che possono preoccupare il regime.

di Pierfrancesco Zinilli

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