Il lotto 265 – capitolo ventuno

“La simmetria formale che si può raggiungere in una novella d’immaginazione può difficilmente toccarsi in una storia pertinente piuttosto a fatti veri che non a favole.”

Herman Melville

 Sentimmo il cigolare di un chiavistello, l’armeggiare di una serratura e la porta venne aperta.

Il tempo in quel fine ottobre non era ancora inclemente, anche se qualche forte acquazzone si era già abbattuto sulla città precedendo l’arrivo dell’autunno. La temperatura che si percepiva all’interno dell’abitacolo era perciò ancora mite, anche se una certa umidità trasudava dalle pareti, rendendo l’angusto ambiente non consono ad una lunga permanenza di tre persone, anche se equipaggiate come se si trattasse di una baita di montagna. Ma quello che lo rendeva sinistro era la mancanza di luce elettrica. Qualche sprazzo di sole mattutino filtrava da uno scivolo per il carbone, la cui porticina veniva aperta solo quando il nero carico veniva introdotto e si depositava in un angolo, quello più asciutto, del rifugio e da una feritoia in alto che consentiva un minimo ricambio d’aria.

La prima cosa che vedemmo entrando nel piccolo tugurio fu un’ampia distesa di un pagliericcio che prendeva quasi l’intera area dell’ambiente. Nello spazio vuoto,  in un angolo, si notavano un fornelletto a gas spento con sopra un pentolino, qualche ciotola vuota ma non cibo né provviste che probabilmente erano custoditi negli zaini appesi alle pareti per proteggerli dai topi e dai parassiti che certamente infestavano quel luogo. Immaginai, anzi sperai, che qualcheduno prima di noi fosse passato da quella porta per portare viveri, acqua, e conforto ai rifugiati. Non vedevo armi né altri strumenti di offesa. E finalmente scorsi, alla oscillante luce di una candela, le tremanti fisionomie dei miei compagni  le quali, ancora distese su quel giaciglio, mi fissavano con occhi spenti, vestiti solo di logore divise militari. Per fortuna, sulle giubbe che potevo intravedere, indossavano, se così si può dire, pesanti sacchi a pelo con cappuccio che lasciavano liberi solo i loro volti sparuti. Sei pesanti scarponi da montagna giacevano ai loro piedi.

 Nonostante l’atmosfera mite l’aria era impregnata da una fitta nebbiolina dovuta sia all’umidità sia allo spesso alitare delle persone rinchiuse lì dentro. Non potendo, io e l’aviere, destreggiarci in quello spazio minimo lasciato dal materasso, ci appoggiammo al muro, aspettando che qualcuno di loro proferisse parola. Fu una voce di donna che per prima udii e che riconobbi essere quella della mia compagna. Era una voce flebile che, in un italiano ancora stento, accennava a qualcosa riguardo al freddo, alla sete, alla fame, all’oscurità, alla mancanza d’aria. Subito, individuato il sacco nel quale si avvolgeva, mi avvicinai a lei scoprendo una parte del volto che io ricordavo dalle guance rosee e dalla pelle liscia come una pesca. Era pallida  ed aveva impresso sulla bocca un sorriso strano, dolente e i suoi teneri occhi cercavano di fissarsi sui miei, nel tentativo di individuarmi in quell’atmosfera pesante, viziata. Fu allora che, essendosi lei, non senza sforzo, alzata su un fianco, mi chinai per abbracciarla ma lei emise un flebile lamento e si accasciò di nuovo sul pagliericcio, apparentemente priva di forze. Le tastai allora la fronte e la sentii talmente calda che quasi scottava. Allora la presi fra le braccia e sentii il calore del suo corpo attraverso la tela imbottita e lei si avvinghiò al mio, poi, con un sospiro,  posò il capo sulla mia spalla. Fui preso da un moto talmente forte di tenerezza che stentai a sussurrarle qualche dolce parola all’orecchio ma lei mi precedette dicendone una sola, ma ripetute più volte: “Caro, caro, caro….”,  e poi svenne.

 Intanto le altre due presenze si erano materializzate sgusciando dai sacchi e potei chiedere loro se avessero dell’acqua, (non potevo pretendere che possedessero un cordiale o qualche essenza benefica da somministrarle per farla rinvenire) ma essi mi guardarono sconsolati ed apersero le braccia in segno d’impotenza. Notai che anche i loro occhi apparivano lucidi e febbricitanti, ma, vedendo la sofferente ancora  accasciata, e ritenendo che avesse bisogno di un soccorso immediato, decidemmo, io e l’aviere, nonostante avvertissimo distintamente sopra le nostre teste il rombare dei cingoli dei carri nemici che mordevano l’asfalto, di raggiungere i piani superiori per chiedere aiuto a qualche buona persona che certamente esisteva nel palazzo.

Per fortuna il portone dell’ingresso principale era sbarrato, il che un po’ ci rassicurava pensando che altre persone si erano barricate in casa al passare delle truppe degli occupanti. Quindi, saliti guardinghi al primo piano, bussammo ad una porta a caso e sentimmo dei passi affrettati che si avvicinavano. Ci venne ad aprire un’anziana signora, alta, vestita elegantemente, dall’aspetto aristocratico, che ci chiese, con un’aria decisa e senza ombra di sospetto, in che cosa potesse esserci utile. Non dicemmo naturalmente che ci nascondevamo a pochi metri sotto di lei, ma ella ci precedette nelle nostre richieste dichiarando di essere la proprietaria dell’intero piano e, che vedendoci male in arnese ed avendo sentito degli strani rumori provenire dal sottoscala, aveva capito che eravamo dei rifugiati. Ci invitò quindi ad entrare e con fare cortese ci fece accomodare in un salotto arredato sontuosamente, con poltrone e divani damascati e quadri di austere figure alle pareti che facevano pensare che la sua famiglia avesse antenati nobili risalenti a molti secoli addietro.

 Informatasi sulla composizione del nostro gruppo ed avendo saputo che tra noi c’era una donna, per giunta malata, ci  permise che la portassimo  da lei per rifocillarla e curarla. A quel punto entrò nella sala una giovane, alta anch’essa, di modi spicci, vestita in maniera maschile, con giacca e pantaloni, che, posando una grossa sacca che teneva in spalla, ci passò davanti con aria altera, quasi sprezzante. Osservandola più attentamente non potei non notare che aveva un rigonfiamento sospetto nella tasca destra della giacca. Aveva il respiro affannoso come se avesse fatto una lunga corsa e si gettò su una poltrona senza nemmeno degnarci di uno sguardo. Quella che doveva essere sua madre si chinò su di lei per ragguagliarla sulla nostra presenza ma ella, con un gesto altezzoso della mano, la respinse. Finalmente, ripresasi un poco, si degnò di guardarci, si sbottonò e si levò la giacca e la posò con circospezione sul bracciolo della poltrona. Sembrava in procinto di rivolgerci la parola ma poi si alzò andando a riporre l’indumento in un armadio, non prima di aver tolto dalla tasca un oggetto metallico che ripose, lanciandoci un’occhiata d’intesa, in una grossa madia che troneggiava nel salone. Mi sovvenne allora alla mente la scena cui avevo assistito quando, molti giorni prima, la mia fedele compagna mi aveva mostrato le armi nascoste nel cassettone a casa sua. Non potei fare a meno allora di chiedere alla giovane donna il perché del suo affanno e che cosa avesse nascosto un attimo prima. “Una pistola, naturalmente…”, rispose lei con aria intrepida “che ho sottratto poco fa ad un milite sull’autobus.”. Meravigliati da quella confessione ci chiedemmo come avesse fatto in così poco tempo a intuire che eravamo dalla stessa parte, non avendo mostrato noi  alcun elemento che ci avesse potuto far  identificare. Fu allora che lei, con un gesto  del capo, indicò la mia spalla sinistra e continuò: “Non sarete per caso anche voi agenti della polizia segreta, nel tal caso avrei dovuto disarmarvi, ma sarebbe stato uno spreco di energie e di energie ne ho poche in questo momento. So invece chi siete e che cosa ci fate qui. Da giorni siete nascosti nello scantinato e non credo per prendere il fresco, avete un’ arma anche voi che avreste potuto usare contro di me ma non l’avete fatto. Deduco quindi che siate anche voi nell’ attività clandestina e che come tali vi nascondiate e non riveliate le vostre vere identità a chiunque, anche a coloro che vi accoglieranno volentieri nella loro casa. Ma ora diamoci da fare. So che avete una donna nel rifugio che ha bisogno di cure. Portatela qui, come ha detto mia madre, e vedrò di prestarle la prima assistenza. Non sono un medico, ma ho già fatto da infermiera nel curare i feriti negli ospedali già dai primi bombardamenti e ho salvato da morte sicura alcuni combattenti nei primi scontri di settembre.”.

(continua)

di Maurizio Chiararia

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