A est di un rumore mare tra le corsie

Ecco un film prodigiosamente originale. Personaggi di tutti i giorni, perduti, imprigionati tra le prolungate corsie e le alte scaffalature di uno di quegli ipermercati che vendono solo merci all’ingrosso (tipo quelli che in Italia si chiamano Metro). Lavoratrici, lavoratori alla catena di montaggio delle merci da sistemare incessantemente con carrelli e muletti elevatori tra gli scaffali dei vari reparti. Un posto di lavoro chiuso, proprio come una fabbrica, ma anche aperto alla clientela che viene a fare acquisti. Un posto dell’anima, dunque, per tutti noi prosumer, ossia  produttori-consumatori quale siamo diventati. Un posto e un film che sono perciò specchio questa nostra doppia anima sociale ed esistenziale. Conosciamo bene quei personaggi, quell’atmosfera, quel rumore di bottiglie in cartoni e cassette, perché noi non solo ci andiamo in quei luoghi, ma essi abitano ormai abitualmente dentro di noi.

Il titolo italiano, Un valzer tra gli scaffali, non rende bene la polisemia, i significati plurimi di quello originale tedesco, In den Gängen: corsie, corridoi, marce, rapporti, vestiboli, sotterranei. Ma c’è dentro anche il lemma germanico Gäng, che connota mutamenti, passaggi, transizioni. Pur essendo, infatti, l’ipermercato sul piano stradale, sembra di essere nel sottosuolo, per la strutturale mancanza di luce diurna naturale. Le “marce” sono quelle del muletto elevatore che bisogna sempre manovrare avanti indietro, a destra a sinistra, in su e in giù. Sinonimo di “marce” è anche “rapporti”, quegli degli ingranaggi meccanici dei muletti. Soprattutto, però, rapporti umani, perché per queste persone la parte più lunga del loro tempo si svolge in questi giorni-corridoi paralleli senza luce. E fuori – in entrata e in uscita – è sempre notte. La notte dei contrasti, delle solitudini, dei passati nascosti, dei drammi familiari quotidiani. Una linea di passaggio, di transizione invisibilmente, silenziosamente drammatica.

Il tedesco Thomas Stuber impernia il suo film su tre protagonisti, attorno ai quali ruota tutto l’ambiente esistenziale-lavorativo degli altri personaggi. Protagonisti scolpiti dal regista sottraendo ogni possibile retoricità alle loro figure. Nello stesso stile essenziale, al limite della scarnezza se non della ruvidezza, reticenza vengono sensibilmente interpretati dai rispettivi attori. Sono Cristian, neo assunto, interpretato da Franz Rogowski; Marion, del reparto dolciumi, affidata a Sandra Hüller; Bruno, del reparto bibite, reso in maniera davvero toccante da Peter Kurth. A lui è affidato il nuovo assunto, con il compito di insegnarli a manovrare carrelli e muletti. Franz Rogowski ha lo sguardo e il labbro superiore alla Joachim Phoenix. Tra lui e la bionda Marion s’innesca una scintilla già alla prima pausa davanti alla macchinetta del caffè. Lei è spigliata, ha uno sguardo e un carattere aperti, ma anche tanti guai a casa con il marito.

L’ipermercato era prima una grossa ditta di trasporti della Germania Est, vicino Lipsia. Con la riunificazione delle due Germanie – dopo la caduta del Muro di Berlino – la ditta è stata smantellata e gli autisti dei Tir adibiti a muovere carrelli ed elevatori tra le corsie di quell’ipermercato. Si conoscono e sono tutti legati da anni di duro lavoro insieme tra le lunghe strade e i pesanti carichi lì dentro. Meno Cristian che viene da un suo passato, forse più pesante di un Tir.

Dopo la riunificazione, però, sembra non esserci più un fuori, un esterno da cui rientrare e verso cui ripartire dopo aver parcheggiato il bestione ed essersi riposati. Ormai è tutto lì dentro. La loro pausa sigaretta è sempre dietro le sbarre, i reticoli con fili spinati sovrastanti che circondano lo stabilimento, come l’ora d’aria negli stabilimenti giudiziari. Un film di parole scarne dietro sentimenti potenti, di slanci vertiginosi trattenuti dentro gesti negati, di sensibilità sconfinate contro i muri di destini comuni.

Il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani lo ha designato Film della Critica, insieme alla Paranza dei bambini.Due film completamenti opposti per stile, concezione del cinema e senso esistenziale. Se quello italiano ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura quest’anno, il tedesco ne aveva vinti  due lo scorso anno sempre a Berlino. Quello della Giuria Ecumenica, e quello Guild delle Giurie Indipendenti. Soprattutto aveva stregato la giuria giovanile del Napoli Film Festival, che gli aveva assegnato il Vesuvio Award, quale Miglior Film. Certamente anche per quel rumore di mare ottenuto con le catene di scorrimento degli elevatori merci tra le corsie.

di Riccardo Tavani

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