La grandezza fattasi mediocrità per noi. Il gigante Geppy Gleijeses

La mediocrità non si racconta né si può portare in scena. Per farlo ci vuole un gigante con la capacità di ridursi a granello di polvere. Una sfida impari, da un lato ciò che si è nella quotidianità, dall’altro ciò che nessuno vuole ammettere: essere mediocri. Una sfida persa in partenza. Ma al  teatro Quirino non è così. Geppy Gleijeses ha dimostrato, se mai ce ne fosse stato bisogno, di essere un gigante, con la capacità di ridursi in granello di polvere, per farci sentire riflettere sulla nostra piccola esistenza, per farci sentire mediocri della nostra quotidianità. Una sfida impossibile, resa possibile da un uomo con straordinarie capacità recitative come non si vedono da anni sui palcoscenici. Un attore che non rincorre il personaggio, ma è egli stesso il personaggio, un Eduardo senza maschera di pulcinella, che trasforma ogni minimo gesto in una pugnalata dritta al cuore, per dirti non sono io, su questo palco ci sei tu, pubblico mediocre alla continua ricerca di un successo che non può arrivare.

Un Geppy talmente al suo posto da non sembrare reale, eppure riempie ogni spazio, senza traboccare, anzi con la generosità del capocomico lascia che Amadeus-suo figlio, si lasci andare con la forza e la sregolatezza di un genio incompreso. Così per tutta la compagnia, guidata senza riduzioni, lasciando ad ognuno lo spazio delle battute dentro la gestualità minima ma intensa. Amadeus-Lorenzo non si risparmia, ci fa vivere, con generosità, la folle vita di un artista troppo grande per essere racchiuso nella recitazione di una serata, mettendoci la passione e l’anima in ogni mimica fuori dall’ordinario, con la complicità di Costanze-Roberta Lucca, donna meravigliosa in ogni momento dello spettacolo. Un insieme di elementi valorizzati da scenografie curate nei particolari, dalle scarpe di Salieri ai mutandoni di Costance, al cappello, mantello e zimarre varie.

Mescolate con sapienza da un Andrei Konchalowskyche riesce a rendere papabile la dualità travestita da mediocre meschinità. Un salto temporale di alcuni secoli nel finale caravaggesco con la deposizione, la luce di candela, poi Michelangelo,con la pietà inversa, il padre ai piedi del figlio morente a chiedere perdono. La pietà di un padre mediocre, per un figlio dannato ma geniale, intriso di beatitudine anche nel momento della morte, con un gesto di resurrezione, vero colpo magistrale di un regista, Konchalowsky, sobrio ma profondo, capace di smuovere la parte peggiore di noi e darci una speranza.  Una modernità sconvolgente impossibile per   un attore qualunque, ma resa realisticamente vera è credibile fin dentro le viscere da un gigante del teatro dal un nome stravagante: Geppy.

di Claudio Caldarelli

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