La cultura della paura rappresenta una minaccia alla libertà

Quando diventa difficile superare le difficoltà economiche e sociali di un popolo, o quando la sua solidità interna vacilla, c’è uno strumento ben rodato a disposizione del Potere. La paura, ovvio. Un fenomeno evolutivo che, per quegli esseri simbolici che siamo, è diventato un sentimento attivabile anche sulla percezione di vulnerabilità.

Perché la paura dia il meglio di sé, però, occorre trovare il nemico giusto. E ogni contesto storico ha il suo.

Se per Greci e Romani quello perfetto erano i barbari, il nemico etnico, con l’avvento al potere del Cristianesimo gli infedeli musulmani parvero perfetti per ricoprire quel ruolo. Come nemico religioso, in verità, qualcuno che funzionava ancora meglio c’era già: gli ebrei. Deicidi, parte della società – e quindi visibili e indicabili- e allo stesso tempo isolabili nei ghetti. Insomma, il perfetto capro espiatorio

Tanto fu il successo che, quando alla fine del XIX secolo le identità nazionali europee andarono in crisi, ecco che l’antisemitismo, supportato anche delle teorie razziste, diventa il fulcro della propaganda della paura.

Alla fine della seconda guerra mondiale, quando appariva compromettente ricorrere all’antisemitismo e alle teorie razziste, è la contrapposizione ideologica a fornire il nemico più adatto.

Con la caduta dell’URSS e l’esaurirsi della guerra fredda, la paura e, come presupposto, la creazione del nemico si è indirizzata contro il terrorismo islamico. Questo recupero della contrapposizione religiosa ha mostrato una debolezza intrinseca. A parte il fatto che I terroristi islamici non si vedono e che ammazzano più musulmani che cristiani, le popolazioni non hanno ceduto alla paura. È vero che nelle settimane immediatamente successive a un attacco la tensione sale ma la maggioranza, quasi come forma di resistenza, continua a vivere senza lasciarsi troppo spaventare.

Ma la paura è necessaria. Chi la governa ha in mano la società. Per chi vuole stringerla in pugno, i tempi forniscono un nuovo nemico su un piatto d’argento: le centinaia di migliaia di persone che – anche a causa del cambiamento climatico, dello sfruttamento iniquo delle risorse, del sostegno esterno a regimi illiberali, delle guerre per procura –  lasciano la loro terra. Soprattutto, la piccola minoranza che cerca rifugio in Europa.

Cosa può esserci di meglio, per alimentare un sentimento d’insicurezza, del perfetto mix fatto da un nemico etnico, religiose per di più con un altro colore della pelle?

Ecco il migrante, quello che mette in discussione il nostro sistema di vita, che ruba le nostre risorse, che attenta al futuro della nazione. Ecco il nuovo, utilissimo, nemico. L’orda che invade per distruggere.

In società spaesate come la nostra, questa narrazione attecchisce con un’enorme forza propulsiva. E con un tale nemico, anche i piccoli leader riescono a costruire un ampio consenso.

Chi si oppone a quest’onda, chi esprime dissenso, diventa un disfattista, qualcuno che fa il gioco del nemico.

Il perché è evidente: le organizzazioni che fondano la loro esistenza sulla contrapposizione amico/nemico rischiano di implodere se un’opposizione interna riesce a far crescere il dubbio che il nemico non è poi quel mostro che la propaganda dipinge e – soprattutto – la consapevolezza che la cultura della paura rappresenta una minaccia alla libertà e al benessere ben più seria del “nemico” di comodo.

Capito perché tanto odio contro Carola, il Papa, le Ong?

di Enrico Ceci

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