Un silenzio tra le parole ribelli che infrange i muri

La poesia è la paradossale parola del silenzio. La scansione metrica, le pausa ritmiche poetiche sono sospensioni del suono nel silenzio: e dunque sono gli unici mezzi per quest’ultimo di farsi ascoltare in noi e nel mondo. A quanti la violenza del potere ha negato, continua a negare la possibilità di esprimersi, quanti ne ha ridotti brutalmente al silenzio? Ma quella voce può essere ancora ascoltata, la poesia fa risuonare proprio il silenzio di quella possibilità violentemente strozzata in gola. Nella sua plaquette poetica, Le parole ribelli, Eretica Edizioni 20019, Susi Ciolella ridà possibilità di voce a tanti cui è stata tolta, che non ne hanno più, perché in fondo al mare della violenza, dell’odio o dell’indifferenza. Josephine/ non hai parole da dare/ il pianto è rombo di risacca/ la pelle osso di cuoio, sono i primi versi d’apertura che appaiono già in copertina. Nell’atto stesso di dichiarare l’assenza di parole, il silenzio definitivo di Josephine, la poesia di Ciolella riapre la possibilità pura della sua voce. Non solo, ma la fa risuonare come risacca che scroscia, quale suono che rimbomba tra le sponde di due continenti, tra i dirupi di due tragedie. L’una quella dell’abbandono imposto, indotto della propria terra, l’altra quella del muro – di pietra o d’acqua – opposto, elevato all’ingresso nel nostro spazio. La possibilità, però, non è mero riscatto elegiaco, resurrezione retorica, ma la condizione restituita a quella voce di rimanere udibile all’ascolto della Storia. Inesorabilmente, infatti: i tuoi occhi Josephine sono catene/ nel ventre del mare nostro. E questi versi che chiudono la poesia risuonano quale traccia persistente di un sonar per ritorno a quel fondo buio ora incatenato.

Afferma Walter Benjamin nella sesta delle sue Tesi sul concetto di storia  che “anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere” (1942).  Non solo i morti, i negati, i silenziati dalla violenza, però, sono più al sicuro oggi. Anche l’arte da tempo non lo è più.  Un altro grande filosofo, molto legato a Benjamin, Theodore Adorno, scrive già nel 1970, nella sua incompiuta Teoria Estetica, che nell’arte, sia in sé, sia nel suo rapporto con la realtà, nulla può più essere dato per ovvio: nemmeno il suo diritto a esistere. Questo per il perenne stato di illibertà vigente nell’intero, ossia nel mondo amministrato, capitalista o statolatrico socialista di allora. Ma oggi, alla svolta ormai avviata del nuovo millennio, qual è lo stato dell’arte sia in generale, sia in particolare nella poesia d’impegno civile, politico, sociale sul cui cammino l’autrice si colloca? Sotto il nuovo orizzonte – cui quell’epoca tramontata stava inesorabilmente conducendo – quello che appare è il progressivo declino della politica, della democrazia, e l’ascesa sull’intero pianeta di una dimensione tecno-scientifica che si accresce sempre di più quale inedito apparato di dominio sopra l’umano. Sopra, perché ad essere travalicato, sopravanzato in blocco è proprio l’ideale politico-esistenziale di umanità cui l’arte autonomamente, conflittualmente ha sempre partecipato. Per questo il pericolo esiziale dell’asfissia retorica che sempre è gravitato sopra l’arte impegnata, oggi, satura l’atmosfera, quale perenne stato d’irrespirabilità che vige nell’intero.

Susy Ciolella

Ecco perché questa produzione poetica di Susi Ciolella pone di fronte a una doppia riflessione incrociata: quella sui suoi versi e quella sull’orizzonte, sullo sfondo epocale in cui essi risuonano. Il nitore, l’asciuttezza della pagina secernono un antidoto a quel gas asfissiante che prenderebbe altrimenti subito alla gola. Non è però un rimedio definitivo, che salva una volta per tutte. Proprio come della madre, inafferrabile in vita, ora che le appare sul tavolo dell’obitorio morta, l’autrice sussurra: avrei voluto afferrarla per sempre. Così il contravveleno alla retorica: non si può mai afferrarlo per sempre. Deve essere secreto verso dopo verso, parola dopo parola. Anzi, ogni singola scansione o pausa metrica, ogni pulviscolare parola sono in sé stilla che schiude a un fragile alito esistenziale. In tale molecolare atto di respiro la parola è in sé già intrinsecamente ribelle. Perché solo se a donarle suono è un’eco intrinseca del silenzio ritmico-poetico, essa può sfuggire alla camera a gas dell’enfasi lirico-politica dentro cui automaticamente spinge il travalicamento, anche linguistico, dell’umano attuato dall’Apparato Tecnico contemporaneo. Non solo siamole nostre storie di fatica per la vita/ che ci strappiamo a denti stretti, ma oggi siamo soprattutto la resilienza, la sopravvivenza alla fatica della vita per non essere piegati allo sguardo retoricamente ingannatore della storia.

La snella edizione di Eretica ha messo una particolare cura per restituire anche alla pagina stampata la pulizia formale e contenutistica dei versi di Ciolella. Le sue parole e silenzi ribelli si snodano per nuclei tematici raccolti sotto titoli via via diversi. L’ultimo di questi è Il pane e le rose. Titolo che è anche un famoso slogan, Bread and Roses, lanciato nel 1912 dalle operaie tessili a Lawurence, Massachusetts, Usa, per abbattere il muro di negazione salariale e di minime condizioni vitali eretto dai padroni contro di loro. Titolo anche di una celebre omonima poesia di James Oppenheim, poi diventata nel 1974 altrettanto celebre canto di lotta. Così recita un suo passo: Innumerevoli donne morte piangono attraverso il nostro canto/ Il loro antico lamento per il pane./ Il loro spirito conobbe poca arte,/ poca bellezza e poco amore. Una vera e propria rivendicazione di esistenza e poesia. A più di un secolo di distanza essa non ha perso in valore e attualità. La sua eco profonda noi la sentiamo risuonare in questi versi di Susi Ciolella: Dammi una parola che sia carezza tra pietre/… parlami d’amore che rompe muri, eterna bellezza.

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