Il lotto 285: capitolo quarantotto

“Niente di quello che ho detto è vero, non perché non sia vero, ma perché l’ho detto.

Tommaso Landolfi

  Sacco in spalla mi avviai verso la meta descrittami nel biglietto ma ad un certo punto mi venne da chiedermi: come faceva la staffetta a sapere che io sarei arrivato proprio in quel luogo e che fossi un partigiano? Chi le aveva dato quel biglietto e perché? Non c’erano altre stazioni il quella zona dove il treno si sarebbe potuto fermare? Sebbene fossi piombato in quella stazione da  solo e fossi uno sconosciuto, perché il casellante mi aveva condotto proprio a casa sua e perché era stato quasi sempre assente in quei giorni di mia permanenza in quel luogo? Allora pensai che fosse stato anche lui un cospiratore e che fosse stato avvertito del mio arrivo via telegrafo dal Comando Centrale e che quindi il mio viaggio fosse già stato precostituito, anche se la mia foga di scendere dal treno mi era stata indotta più dall’istinto che da un preciso ragionamento. Con questi quesiti nella mente, tutt’ora irrisolti, procedevo spedito per paura di posti di blocco o controlli da parte della Guardia Repubblicana, le cui squadre,composte da uomini violenti e ben armati, erano decise a uccidere quanti più partigiani potevano e quanti più antifascisti potevano identificare. Avevo già percorso alcuni chilometri a piedi senza incontrare anima viva quando scorsi in lontananza un casolare sul ciglio della strada che poi, avvicinandomi, identificai, dall’insegna che penzolava su un lato, come una locanda o una semplice osteria.Entrai e mi trovai in un ambiente poco illuminato, nonostante dalle finestre dalle persiane accostate trasparisse ancora  qualche raggio del sole morente. Eravamo in pieno agosto e il caldo e l’ava  in quelle zone di pianura lontane dal mare erano opprimenti. Per un attimo mi sembrò di rivivere la fosca esperienza che avevo vissuto nel sogno della prigione ma il contesto era diverso, in un certo qual modo più rassicurante, perché non vidi alcuna bandiera col teschio né ero stato spinto a forza in quel luogo da quelli che si sarebbero poi rivelati come carcerieri e aguzzini.

  Si trattava di una stanza angusta, di forma quadrata, molto calda perché il sole la inondava attraverso i vetri chiusi delle due finestre e le imposte accostate. Scorsi subito due individui seduti in fondo con davanti una bottiglia di vino. Nessun cantiniere si notava dietro il bancone, né camerieri o servitori.

  Mi sedetti all’unico tavolo rimasto. La lunga camminata mi aveva messo addosso una certa sonnolenza che facevo di tutto per evitare, vista la presenza dei due sconosciuti seduti al tavolo vicino ma socchiusi gli occhi e attraverso quell’aria greve e quel torpore mi feci penetrare dal selvatico incanto della campagna che si intravedeva dai vetri.

  Il sole cominciata a prendere le cose di sbieco, allungando le ombre delle case di fronte e del muretto del giardino, e già i colori erano meno soffocati, essendo diminuito il peso della luce. L’aria di stava muovendo un poco e un gruppo di ragazze si scambiava parole allegre da una parte all’altra della strada. Non ero quindi capitato in un luogo isolato anche se non vedevo ancora anima viva che avesse potuto occuparsi della gestione della locanda ed avevo un certo timore a rivolgermi ai due avventori che nel frattempo continuavano a scambiarsi occhiate d’intesa.

  Non vedendo nessun motivo per rimanere in quel luogo ed avvertendo nel contempo una sensazione di pericolo (forse dovuto alla sospetta estraneità che avevo rilevato nelle due figure che ancora sostavano all’interno) uscii all’aperto. Il giardino della locanda era delimitato da un basso muro di mattoni con un cancello di legno semiaperto. Guardandomi intorno e non scorgendo alcunchéche si muovesse alle mie spalle varcai la soglia per controllare se all’esterno vi fosse qualcosa o qualcuno che mi aveva suggerito quel senso di pericolo e quindi di essere guardingo. Avvertii al mio fianco allacciata la pistola che mi accompagnava ed ero sicuro che se avessi saputo che cosa temere avrei forse potuto difendermi, ma quel senso di incertezza era più inquietante di qualsiasi precisa minaccia. Mi feci comunque coraggio ed attraversai la strada per raggiungere il gruppo di giovani che sembrava stessero giocando. Quando  mi videro d’un tratto si sparpagliarono e si nascosero dietro le prime case che davano sulla strada. Non feci in tempo a chiamarli o a vedere soltanto i loro volti ma mi parve di vedere fra i fuggitivi una ragazzetta con una folta capigliatura nera e con un lungo vestito scuro che svolazzava nella corsa. Aveva al collo un fazzoletto di un colore indefinito e per un attimo incrociai il suo sguardo e riconobbi il lei la latrice del messaggio che avevo conosciuto nella casa del casellante. Preso da un senso di meraviglia  e nel contempo di protezione le lanciai un grido che sarebbe servito per fermarla e poterla avvicinare ma lei sparì dalla mia vista in un lampo. Rimasi per un momento interdetto e mi chiesi cosa facesse fra quelle case una presunta staffetta partigiana che si mostrava allo scoperto e alla luce del sole e perché si stava nascondendo nel vedermi.

  Le case erano basse e squadrate, coperte da un intonaco grigiastro e assomigliavano a quelle che avevo visitato più volte alla periferia della mia cittàtempo addietro. Anch’esse avevano una scala sul lato sinistro che conduceva al piano superiore, un ingresso con un piccolo atrio che portava alla scala interna, piccoli spiazzi sul davanti dove giocavano i ragazzini. Anche lì il regime aveva costruito quegli agglomerati di case tutte uguali, forse per ospitare ferrovieri od altro personale addetto a mansioni di pubblica utilità. Più all’interno c’erano vecchi casolari con ampie facciate esposte a mezzogiorno, col portico e l’aia per battere il grano e campi arati dove i contadini trascorrevano le loro faticose giornate. Il territorio abitato, di cui potevo vedere solo le propaggini, era molto vasto e si estendeva lungo vie maestre che tagliavano diritte la pianura e si perdevano all’orizzonte.

  Seguii la ragazzina e la vidi scantonare e  rifugiarsi in uno di quei lotti, dove forse abitava. Ebbi per un attimo il sospetto che non fuggisse da me perché scorsi dietro le mie spalle i due uomini dell’osteria che si stavano avvicinando(così mi sembrava) minacciosi. Io allora mi fermai e loro si accostarono a me, girando con fare circospetto lo sguardo intorno, e mi tesero la mano. Allora, anche se ancora il mio istinto era ancora sospettoso mi sentii liberato da quel senso di paura che mi aveva assalito inconsapevolmente.

Dopo aver scambiato qualche parola tornammo verso la locanda e lì, in quell’ambiente ora popolato di avventori e con l’oste che ci salutò cordialmente, ci sedemmo intorno a un tavolo e cominciammo a conoscerci meglio, rivelando poco a poco anche le nostre identità e constatando che ci eravamo incontrati in quel luogo per una missione comune.

  Seppi che il primo, sbarcato da un sommergibile, prima era stato dato per disperso e poi si era infiltrato anche lui al di là del fronte, l’altro era stato paracadutato oltre le linee nemiche ed entrambi avevano raggiunto la cittadina dove ora ci trovavamo. Io raccontai il mio percorso accidentato, il mio viaggio in treno ma tacqui sui particolari del vagone fantasma, sulla mia permanenza nella casa del casellante e sulla ragazza dal comportamento ambiguo che mi aveva consegnato l’ordine di servizio.

 di Maurizio Chiararia

(continua)