Quer pasticciaccio brutto della Gregoretti

È la fine di luglio 2019. Fa caldo in tutta Italia ma, si sa, la Sicilia è ancor più calda. Il 25 di quel luglio torrido la nave Gregoretti corre a salvare dei naufraghi al largo di Lampedusa.
Quel giorno sui giornali e nelle reti televisive si parla di “giornata storica” dal punto di vista meteo: è caldo record in tutta Europa.
La nave Gregoretti, con il suo carico di naufraghi, si dirige verso le coste siciliane, attendendo l’autorizzazione all’approdo. Il 28 luglio è ancora in attesa. I giornali parlano ancora di clima: 35° all’ombra a Catania ed a Siracusa. Lì, almeno, puoi rinfrancarti con una bella granita, oppure rifugiarti in un posto con l’aria condizionata. Ma non sulla Gregoretti. Qui sei sotto il caldo sole siciliano, il ferro della nave si scalda al punto che non puoi toccarlo, niente granita né condizionatori. E quanti bagni ha una nave di 60 metri? Sono abbastanza per i 135 (a parte l’equipaggio) a bordo? Come si lavano, specialmente quelli con la scabbia? E qual è la temperatura sul ponte metallico di una nave in mezzo al mare, quando in città ci sono 35 gradi all’ombra?
Per fortuna, c’è chi non si lascia piegare dalla canicola: il ministro Salvini resiste al caldo ed al buon senso con pari energia. E, con coerenza degna di miglior causa, rifiuta il permesso di approdare. Che aspettino, finché gli altri Paesi europei non si prenderanno la loro parte di naufraghi – pardon – migranti.
Così per sei giorni questi aspettano di poter scendere a terra e di poter entrare in un altro incubo, fatto di attese, povertà, clandestinità, caporalato e sfruttamento, vagabondaggio. Un salto sociale da naufraghi a reietti, nelle pieghe e nell’ombra di una società ai loro occhi ricca, magari aiutati dalla criminalità in cambio di altra criminalità. Un solo premio si attendono dallo sbarco: la speranza che, si sa, è ultima dea, cieca come la fortuna.
Oggi la storia della Gregoretti è tornata d’attualità, per il sì del Senato alla richiesta del Tribunale e per il dibattito che lo ha preceduto.
Come sempre, è interessante leggere le parole dei “politici”, il lessico e la retorica di cui fanno uso, il più delle volte allo scopo di ottenere consenso a prescindere dalla ragione, considerata un peso superfluo, inutile roba da “professoroni”.
Salvini, in particolare, ha sostenuto di aver fatto il proprio dovere di ministro difendendo i confini italiani, come giurato solennemente.
Come dargli torto?
Peccato che la nostra amata terra non fosse minacciata da nessuno. Pur con tutta la buona volontà, non riesco proprio a vedere un pericolo o una minaccia da cui essere difesi. Dopo le evacuazioni per gravi motivi medici, restavano a bordo 131 poveracci, disarmati, al limite del colpo di calore, stremati dai disagi: da chi o che cosa dovevamo difenderci?
Ma io non sono ministro, nessuno mi ha votato: quindi forse non sono in grado di capire. Quando si ha la responsabilità di governo, forse, si vedono le cose diversamente e si hanno obblighi più stringenti.
Salvini ha ben presente che fare il ministro comporta doveri precisi, sanciti dal giuramento di osservare la costituzione e le leggi e di esercitare le funzioni “nell’interesse esclusivo della nazione”.
Ma ancora non era ministro, era un semplice deputato europeo, quando ci sono state le riunioni negoziali di quel parlamento per la revisione del trattato di Dublino: 22 riunioni cui non si è mai presentato, come i suoi colleghi di partito. In quella sede si tentava di stabilire nuovi criteri di accoglienza (o di non accoglienza) ai migranti. Ma lui non è mai andato a difendere “l’interesse della nazione”, né ha ritenuto che quella fosse la sede più appropriata per difendere i patri confini.
La Lega, ha denunciato più volte l’allora eurodeputata italiana Elly Schlein, non ha mai partecipato alle 22 riunioni negoziali per discutere una proposta di riforma che avrebbe previsto, fra le altre cose, l’eliminazione del principio di prima accoglienza, la regola che impone di inoltrare la domanda di asilo – e quindi l’obbligo di risiedere – nel paese dove si approda, anche quando si è intenzionati a migrare altrove. “Si parla di una riforma su un tema core e non ti presenti? Posso capire la Francia della Le Pen, a cui va benissimo che non ci siano solidarietà sul primo sbarco. Ma l’Italia?”: così la Schlein in una recente intervista.
Ma Salvini bisogna pur capirlo: il suo Paese ha interesse a rivedere la vecchia regola di Dublino, ma i suoi alleati più cari (Le Pen e il “gruppo di Visegrad”) preferiscono tenersela stretta. Meglio non presentarsi e prendere due piccioni con una fava: non inimicarsi gli amici e avere un bell’argomento populista-sovranista di sicuro impatto per le prossime elezioni.
Alla fine è rimasta in vigore la regola del primo sbarco: chi tocca er pupo diventa compare. E, guarda caso, la ragione principale della politica salviniana sugli sbarchi.
È stato un piccolo capolavoro politico: l’assenteismo leghista dalle riunioni europee è servito a costruire i nemici contro cui combattere, cioè le istituzioni europee e gli immigrati. Magari, partecipando alle riunioni, avrebbero potuto “difendere” l’Italia, ma avrebbero ridotto la forza della loro propaganda elettorale. Molto meglio difenderla da ministro, a scapito di qualche malcapitato. D’altronde, non glielo ha chiesto Salvini di emigrare.
Sembra impossibile, ma i fatti gli hanno dato ragione. E gli italiani lo hanno votato.
La politica leghista è stata machiavellica, non soltanto a livello europeo, ma anche interno.
In questa stessa ottica, infatti, va vista la lotta propagandistica e istituzionale contro il sindaco di Riace. Lucano aveva dimostrato con i fatti che si può trasformare il problema dell’immigrazione in risorsa sociale ed economica. Meglio combatterlo e vanificare la sua azione, che ha la grave pecca di tagliare l’erba della paura e dello scontento sotto i piedi leghisti.
In contrasto con le strategie propagandistiche di un politico di lungo corso come Salvini, è interessante considerare il lessico e la retorica di un politico meno machiavellico, come il senatore De Falco. Senza ricorrere a Silvio Pellico né a Indro Montanelli, ha dichiarato che l’azione del ministro è stata una “inutile crudeltà”. Inutile perché i naufraghi erano già in territorio italiano (una nave militare lo è, in tutto e per tutto) e non c’era quindi alcun confine da difendere, ammesso che fosse minacciato. Inoltre la Gregoretti, costruita per attività di vigilanza pesca, non era per niente attrezzata per ospitare persone a bordo. Da qui la “crudeltà” di tenere per giorni sul ponte senza protezione una piccola folla, sproporzionata alle dimensioni ed alle attrezzature della piccola nave. Non per niente, si erano rese necessarie delle evacuazioni mediche per salvare la vita di alcuni naufraghi, non in grado di tollerare condizioni così disagiate.
Senza tanti artifici retorici, De Falco spiega poi come e perché il decreto Salvini non fosse applicabile a navi della marina militare italiana. Cosa che sembrerebbe lapalissiana ma, si sa, la politica (quella più di parte) ha logiche diverse.
Ma non potrebbe essere di parte anche il discorso di De Falco? Sembrerebbe di no, visto che lui era stato espulso dai 5stelle per aver votato contro il decreto sicurezza e il condono per Ischia: cioè per non essere stato per niente di parte. E in seguito, coerentemente, aveva dichiarato in occasione del caso Diciotti: “Il vostro è stato un comportamento inutile. C’era una nave italiana in acque italiane. Non avete cognizione di quello che fate”; ed aveva votato a favore della richiesta del tribunale.
Ma, dispiace dirlo, qui il comandante si sbagliava: Salvini ha piena cognizione di quello che fa.

di Cesare Pirozzi