Il lotto 285 – capitolo cinquantaquattro

“L’autore non racconta né afferma alcuna cosa senza provarne l’esatta verità con documenti autentici. Rimangono quindi da raccontare o appena accennati tra le righe, mille fatti importanti e misteriosi, i quali ne spiegano o potrebbero spiegarne altri le cui cause non indoviniamo, perché egli, come storico severo e verace, deve contentarci solo a metà, senza affermare come cosa sicura quella che non può essere chiaramente dimostrata, benché si possa indovinare e vi siano di essa segni ed indizi.”

Juan Valera – L’ultimo peccato

   Spuntavano le prime luci dell’alba e ci trovavamo ancora nel letto del fiume, poco distanti dall’altra sponda.

   Il battelliere aveva difficoltà a rimanere trasversale al corso delle acque che scendevano veloci e tumultuose a causa del disgelo che le ingrossava, facendo sbandare la zattera come un fuscello. Eravamo ormai in balia delle onde ed avevamo poche possibilità di accostare all’altra riva quando scorgemmo una camionetta con una stella bianca sulla fiancata  i cui occupanti ci fecero cenno di insistere, che avrebbero calato con un verricello una corda metallica da agganciare al bordo della zattera. Per fortuna l’esperimento riuscì e così potemmo toccar terra. Erano truppe americane, così potei identificarmi come appartenente ai loro servizi segreti.

   La mia ultima missione era fallita, il mio compagno di cordata (molti anni dopo, nella mia carriera scientifica, avrei chiamato “compagni di cordata”, anche a loro insaputa, quei ricercatori che ritenevo più affini ai miei metodi nel campo delle analisi matematiche) era morto ed io non potevo che tornare in città, avendo esaurito i miei compiti, a meno di un soprassalto di efficienza nel Comando Generale.

   Questa volta non andai a rifugiarmi in case di altri cospiratori ma, essendo la liberazione imminente, cercai tra gli sfollati qualche famiglia che mi potesse ospitare senza danno. Ebbi molti rifiuti per il sospetto che potessi essere un disertore delle bande repubblichine, o una spia, o anche soltanto un fascista che non intendeva arrendersi. Trovai infine una famigliola di profughi provenienti dalla capitale che ritenne conveniente ospitarmi. Per dare loro qualche garanzia sul mio stato, dissi che avevo partecipato alla guerriglia per le strade della capitale per ben sette mesi, descrivendo alcune delle mie imprese, senza però rivelare la mia identità né quella dei miei compagni. Al massimo avrebbero potuto credermi un millantatore, non certo un fascista, anche se avrei saputo poi essere loro stessi dei nostalgici del regime. Appartenevano certo a quella che veniva chiamava “la zona grigia”, cioè a quella categoria di persone che durante il ventennio aveva avuto qualche privilegio ma certo non potevano essere sospettati di simpatizzare per i gerarchi e il loro capo. La famiglia era composta da due giovani sposini che avevano, dopo lunghe peripezie per trovare un alloggio, appena dato alla luce un pargoletto che non poteva avere più di due mesi ed era ancora attaccato al seno della madre, la quale aveva lasciato la capitale per seguire il marito militare dell’aviazione che, dopo l’occupazione tedesca della città era sbandato ed in cerca di un comando sicuro tra le forze rimaste ancora fedeli al Re. Lei apparteneva ad una famiglia nobile, anche se decaduta, lui, figlio di contadini, si era arruolato nell’aviazione perché aveva visto come un onore appartenere a quell’arma alata che stava nascendo sotto gli auspici battaglieri del Duce. Stetti da loro le ultime settimane di aprile ed un giorno un gruppo di partigiani, in  cerca, casa per casa e armi in pugno, dei fascisti  fuggiaschi, bussarono alla porta. Io mi trovavo in una stanza interna e non mi feci avanti per sicurezza. Intanto la madre aveva aperto ed aveva mostrato con orgoglio il bambinello che teneva in braccio, manco fosse stato Mosè salvato dalle acque. I partigiani, a quella vista, non entrarono, anzi uno di loro dette al pargolo un buffetto dicendo “Che bel bambino!” e se ne andarono.

   La sera, ritirandomi nella mia stanza, detti un’occhiata alla loro camera. Se è vero, come dicono le Scritture, che Mosè fu abbandonato in una cesta e spinto nel fiume, avevo visto che il bambino, non meno precariamente, era stato posto a dormire in un cassetto aperto di un antico comò posto vicino al letto perche si sentissero meglio i suoi vagiti durante la notte.

   Erano le giornate successive al 25 aprile. Nella città liberata, si susseguivano sfilate delle forze partigiane scese dai monti, cui partecipavo, anche se in maniera defilata, quando ad una di queste notai un personaggio di cui avevo sentito parlare, ritenuto dai più come una leggenda. Il suo nome  (all’anagrafe, vero, come scoprii poi) corrispondeva ad uno dei miei appellativi di battaglia. Aveva costituito anche lui una formazione di Gap che agiva per le strade della città, compiendo numerose azioni nei confronti di fascisti e tedeschi e personaggi di spicco nel settore industriale. Aveva già partecipato ad altri attacchi in un’altra città, assieme ad un giovane ufficiale, combattente di una Brigata Garibaldina, già distintosi anche lui in parecchi attacchi contro i fascisti ed i tedeschi, che aveva partecipato ad una pericolosa azione contro una radio emittente fascista. Nel combattimento che seguì all’azione vittoriosa, benché ripetutamente ferito riuscì a sfuggire al nemico. Circondata la casa nella quale aveva trovato rifugio, all’intimazione di resa aveva risposto con supremo disprezzo, aprendo il fuoco ed impegnando battaglia. Per diverse ore sostenne da solo la lotta contro soverchianti forze nemiche uccidendo e ferendo numerosi militi fascisti e tedeschi. Esaurite le munizioni, per non cadere vivo nelle mani del nemico, si era affacciato alla finestra e, salutato il popolo che si era raccolto intorno al luogo del combattimento, al grido di « Viva l’Italia », si era lanciato nel vuoto con il pugno chiuso, in  un ultimo supremo sacrificio. (*)

   Durante quelle vicissitudini tra monti, fiumi e paesini sperduti, e i momenti di gioia che avevo provato, in quei giorni di festa, nel riabbracciare i miei compagni dispersi, avevo perso di vista il vero obiettivo del mio girovagare per il paese, l’unico oggetto che ormai mi occupava la mente da vario tempo e non riuscivo, benché ne avessi già avuto svariate avvisaglie, ad identificare: Il Lotto 285. Non avevo provato neanche ad addentrarmi in qualche luogo che somigliasse ad una serie di lotti in quella città caotica, che per giunta non era la mia, perché la mia esperienza passata mi aveva suggerito che fosse ormai inutile sperdermi fra caseggiati sconosciuti  alla ricerca di quell’indirizzo. Mi distolsi così ancora una volta da quella affannosa ricerca, decidendo di attendere altri indizi.

   Ora i treni viaggiavano regolarmente ed io non vedevo l’ora di ricongiungermi con la mia compagna che mi era stata lontana per vari mesi.

Tornai quindi nella capitale, andai all’ultimo indirizzo conosciuto da un’unica lettera che avevo ricevuto, bussai ed ella aprì. Fosse stato lo sforzo eroico che aveva compiuto per amore del suo compagno, fossero state le gravose privazioni o fosse una particolarità del suo carattere, certo che, avendomela finalmente davanti, compresi di primo acchito che non c’era nulla di nuovo da attendersene, che già da molto tempo aveva rovesciato tutta se stessa nell’attività partigiana, e che più nulla, di lei, era restato. O forse sì qualcosa era restato, degno di profonda deferenza, qualcosa di molto amabile e malinconico, come un ricordo, come una luce lunare.  Ci abbracciammo, divenendo, senza accorgercene,  un unico corpo fremente.

 

(*) Non ho potuto fare a meno di ricalcare il testo della motivazione della Medaglia d’Oro che gli era stata poi attribuita, per ricordare degnamente un compagno di lotta che, assieme all’altro valoroso combattente di cui avevo prima parlato, aveva fatto parte della mia stessa Brigata Garibaldina.

di Maurizio Chiararia

(continua)

 

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