Il lotto 285 – capitolo cinquantasei

“Nella tomba erano calati rapidi i figli, già adulti, di questi uomini e di queste donne. Una generazione dopo l’altra era stata stesa a terra, come da un muro che scivolasse lentamente. Ma tornavano sempre ad esserci giovani coi capelli lustri pettinati all’indietro, lisce giovinette; e nei viali c’erano vecchie appoggiate al bastone e piccoli esserini nelle carrozzine. E nel cielo passava la luce sfolgorante, che si levava al mattino e tramontava la sera.”

Alfred Döblin –  Giganti

Le due lettere

      Nella gigantesca epopea che avevo vissuto avevo dovuto prendere atto di non essere più quel giovane uomo che aveva messo se stesso al servizio della patria, ma un uomo maturo, con le sue esigenze familiari, con la prospettiva di disegnare un futuro per me e la mia compagna, di estendere ad altre mansioni quello che avevo imparato nella lotta partigiana.

   Andammo a vivere nella casa lasciatami da una zia dove altre volte in precedenza ci eravamo rifugiati da combattenti. Era una casa spaziosa, come avevo già descritto in precedenza, ma senza riscaldamento. Si stava avvicinando l’autunno ed il leggero tepore che avevamo immagazzinato durante quell’ultimo scorcio d’estate andava lentamente evaporando per cui dovemmo ricorrere al famoso scaldino elettrico (per fortuna l’energia elettrica era stata ripristinata) su cui mettere a bollire qualche pentola d’acqua che assicurasse un certo calore. In una giornata di relativa calma, dopo il trambusto che era seguito all’entrata degli alleati nella capitale, io e la mia compagna (ora mia moglie) ci mettemmo a scartabellare tra la posta che avevamo conservato. Assieme ai messaggi che avevo ricevuto dalle varie staffette durante le mie missioni, avevo trovato alcune bozze di lettere, dirette alla mia compagna lontana, che forse avevo spedito ma che non erano mai arrivate, assieme all’unica lettera che avevo fortunosamente ricevuto da lei durante la mia ultima missione che prevedeva lo sconfinamento in Svizzera per  tagliare la strada al dittatore che in quei momenti cercava di sfuggire ai partigiani e rifugiarsi oltre confine.

   La lettera, scritta a caratteri incerti, diceva così:   “Mio caro, mia vita. Forse questa lettera ti arriva. Forse non arriva come le altre. Mi avresti risposto, se tu le avessi ricevute. Io comincio ogni lettera così: mio caro, mia vita. E questo ti dice che sono senza vita e che aspetto una lettera da te, e che devo aspettare, trovare me stessa. Caro, non reggo più. Caro, mi consumo. Se non so presto qualcosa di te, se non mi colma una parola di te, vado a fondo. Sono passati solo pochi giorni da quando tu eri ancora con me in questa camera. Vedo sul calendario che era la scorsa domenica. (…) Scrivo, scrivo. Penso, penso. Guardo intorno. Aspetto un consiglio di questo e di quello. (…). Caro, vita mia, così non può durare. Avrai altre lettere da me domani, dopodomani, magari ancora per due o tre giorni. Ma le giornate sono così tormentose! Non posso resistere. Non so cosa succederà. Scrivimi, caro, scrivimi, scrivi, vieni da me. Dio mio, caro, il mio orologio è accanto a me, me lo sono tolto, perché non lo voglio vedere. Non voglio vedere. Sono le sei. Dio mio, devo aspettare fino alle sei e mezzo, sette, sette e mezzo, otto, otto e mezzo, non resisto. E’ un lavoro impossibile per me, è lavoro forzato, non lo posso fare, non posso…”.

   E poi continuava: “Niente notizie tue. Ora tutti quelli che mi facevano ricordare di te, sono partiti. Sono in ansia per te. Ti scrivo ogni giorno all’indirizzo svizzero, che mi ha dato. Ma tu non rispondi. Dicono che la posta non funzioni, che tutto sia bloccato nella ritirata del nemico. Mi chiedo se non avrei dovuto seguirti, i treni sono zeppi di gente, ma un giorno ci salirò lo stesso. Come dovrei vergognarmi di scriverti cosi!”.

   Dopo aver letto queste parole, rivolgendomi a lei che mi osservava trepidante, tentai di giustificarmi (se mai avessi potuto) per la mia assenza, raccontandole quali erano state le ultime fasi della mia avventura.

  Avevo avuto qualche difficoltà ad attraversare il confine per via delle guardie svizzere che impedivano l’accesso a chiunque non fosse loro concittadino ma con un espediente riuscii a convincerle che stavo operando per i servizi alleati ed avevo una importante missione da compiere. Avevo raggiunto così il primo paese oltre la barriera che divideva i due stati. C’era una casamatta dell’esercito elvetico, dove ero stato accolto per fortuna non come disertore o fuggiasco, ma con tutti gli  onori che gli ufficiali stranieri attribuivano a tutti i combattenti per la libertà della patria. Il fatto di trovarmi in una regione libera, neutrale ed accogliente  mi aveva fatto pensare a tutti i miei connazionali (e non) che avevano avuto  la possibilità di trovare una nuova patria in un mondo che auspicavano senza confini e senza classi, gli anarchici, i libertari, i comunisti, tutti gli uomini che credevano nell’emancipazione dei popoli e tutti i perseguitati da regimi autoritari. Lo stesso dittatore a cui ora davamo la caccia anni addietro era stato ospite gradito di quella nobile terra. Dopo qualche ora di ambientamento avevo chiesto ad una guardia se avessi potuto mandare (e ricevere) dei dispacci attraverso la loro posta che, sapevo, non era sottoposta a controlli preventivi come nel mio paese. Avendo ricevuto una risposta affermativa mi ero messo subito all’opera. Avevo cercato per prima cosa di comunicare con i miei colleghi dei servizi inglesi ed americani per descrivere loro le difficoltà che avevo avuto prima di raggiungere il luogo d’incontro che era stato prefissato con loro ed altri compagni dell’esercito di liberazione e che ora mi trovavo in un rifugio sicuro oltreconfine. Non avendo ricevuto risposta mi ero adattato alle abitudini del paese nel quale ero, il cui nome era Zwischbergen ed era appena oltre il confine, tanto da far pensare che prima doveva essere stato italiano. Dopo un’iniziale diffidenza da parte degli abitanti, dovuta ai loro  principi di autogoverno, mi ero sistemato in un albergo vicino alla stazione dove avevo fatto la conoscenza di un ufficiale medico tedesco, che aveva avuto modo di rifugiarsi in Svizzera nelle ultime fasi della guerra, avendo saputo della definitiva capitolazione del suo esercito di fronte all’avanzare delle truppe alleate ormai alle porte di Berlino. Eravamo riusciti a scambiarci qualche parola, io partigiano e lui della Wehmacht, ma senza alcuna diffidenza, dato che sapevamo entrambi che ormai eravamo vicini ad essere considerati dei semplici borghesi, anche se su fronti contrapposti. Erano  poi passati alcuni giorni senza incontrarci quando avevo saputo dal portiere che l’ufficiale si era tolto la vita. Evidentemente tanto era stato il peso di quello che aveva fatto e subito durante quei lunghi anni di conflitto che non aveva più avuto la forza di reggere a tutto quello e si era impiccato alla maniglia della finestra della sua camera d’albergo. Sul suo comodino era stata trovata questa commovente lettera-testamento (evidentemente mai spedita) alla madre.

   “Mamma, so che non mi sono battuto con la morte e non sarei tornato a casa dalla guerra per continuare la mia vecchia vita. Lo vedi, non è la mia strada quella. E anche se le mie membra fossero più forti, non mi sarebbe stato permesso di tornare come prima. Nulla di conquistato, nulla di pensato, nulla di saputo. Madre, siamo in un abisso. Come mai, mamma, ha potuto essere distrutto e sparire, madre, come una polvere soffiata via, quel che ha mandato milioni di gente come noi in guerra e ha sacrificato e ucciso vecchi e giovani? E tutto questo è sparito, come uno spirito al canto del gallo, il Reich, il Reich tedesco, la cornice del nostro essere. Non ho letto nessun giornale ma ne so abbastanza. Il Führer, con tutta la sua famiglia ed il suo seguito, spazzati via. E noi che cosa dobbiamo pensare? Una maschera caduta, mamma. E’ la disfatta. E nemmeno il fatto che milioni d’uomini non siano tornati, i morti, e che ci siano milioni di mutilati, è bastato a trattenerli. Che vergogna! Ed erano la nostra forza, la cornice del nostro essere.”

(continua)

di Maurizio Chiararia

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