Il lotto 285 – Capitolo trenta
“Ciascuno è in grado di sperimentare che si può descrivere con precisione e completezza solo quanto si conosce bene, e le cui parti, la cui origine e il cui corso, scopo ed uso ci son presenti: in caso contrario non ne deriverà una descrizione, ma un disordinato accozzo di rilievi incompleti.”
Novalis – Heinrich von Ofterdingen
L’ultima azione dell’anno fu l’incendio ad un’autorimessa, con ripetuti lanci di bombe a mano. Tre automezzi andarono distrutti. Cinque tedeschi tra morti e feriti. Il giorno seguente vennero messi dei cordoni di agenti tutt’intorno all’autorimessa per presidiarla.
I genitori della mia compagna non approvavano le sue scelte ed i fratelli addirittura tentarono di impedirle. Dai primi dell’anno ella lasciò così la sua casa in periferia definitivamente. Da allora non avemmo mai un alloggio fisso; trascorremmo quel periodo cambiando recapito almeno una decina di volte. Ci spostavamo continuamente. Per un periodo fummo ospitati in una carbonaia, poi in casa di altri compagni di cui comunque non conoscevamo i nomi né loro i nostri. Non dovevamo sapere nulla gli uni degli altri. ”La guerriglia urbana non ha i momenti condivisi della resistenza in montagna(…). I partigiani in città si conoscono pochissimo tra loro, agiscono soli o in pochi. Vivono per lo più da soli la fame, il freddo, la paura.”
La prima casa che ci ospitò si trovava in un quartiere, edificato nel secolo passato, al di là del fiume, su terreni bassi e stagnanti, i cui prati (da cui il nome) venivano frequentemente alluvionati dalle piene prima che i suoi greti fossero muniti di argini massicci sufficientemente alti da evitare ulteriori esondazioni. Un quartiere signorile destinato alle classi agiate, impiegati, accademici, funzionari governativi, a pochi passi dalle mura che proteggevano, fin dai tempi remoti, la città pontificia.
La seconda dimora si trovava in un nuovo quartiere che si espandeva a vista d’occhio verso le colline, tagliato da una grande strada provinciale che negava, nel suo nome, di andare verso un paese vicino, ma poi effettivamente ci andava. Un’altra, nel centro della città, che ci dava spesso rifugio anche dopo le azioni, era uno studio di pittori amici.
A un certo punto venimmo a conoscenza della morte del nostro compagno aviere che aveva scelto la via della montagna. Era caduto in un agguato assieme ad altri militari e partigiani che, per fortuna si erano salvati. Uno di questi, un civile, era sceso a valle e, avendo saputo dell’appartenenza, anche se breve, del caduto al nostro nucleo operativo, volle portarci lo zaino rinvenuto presso di lui, con le ultime cose che lui aveva custodito, tra cui la famosa cartella che l’aveva seguito nelle nostre ultime avventure e peregrinazioni per avvicinarci alla città. Il nostro nuovo compagno (perché anch’egli aderì ben presto al nostro GAP, anzi era stato da me individuato e fatto scendere dalla montagna su mia personale richiesta, sapendo che era un giovane valoroso e fidato) non sapeva quello che custodiva la cartella ma fu ben lieto di consegnarcela, ed a me in particolare, intuendo che quelle reliquie contenessero qualcosa di importante. Infatti l’aviere mi aveva promesso che mi avrebbe tenuto a parte di un segreto e forse il suo desiderio, prima di morire, era stato quello di rivelarmelo attraverso il tramite del compagno che, sapeva, sarebbe sceso dalle montagne per l’avvicendamento.
All’interno dello zaino rinvenni la bustina che l’aviere portava quasi sempre sul capo, le stellette e due piastrine, di quelle che i militari tengono al collo per l’identificazione in caso di decesso. Consistevano in due rettangoli di metallo, appesi ad una catenella, che contenevano, stampigliati sui due lati e ripetuti identici nella parte inferiore, le generalità del militare, la data di nascita, un numero identificativo, la sigla della nazione di appartenenza, il gruppo sanguigno e la confessione religiosa. L’oggetto era diviso da una tacca che, spezzata in due rendeva possibile, attraverso un foro, legare la parte inferiore ad un’altra catenella e asportarla per l’identificazione del caduto. Una piastrina era intatta mentre dell’altra era rimasta la parte superiore, assicurata ancora alla catenella. La seconda, quella priva della parte inferiore, era sicuramente appartenuta all’aviere e l’altra mi sforzai di capire a chi appartenesse, cosa che scoprii quando, rovistando tra le carte contenute nella cartellina, trovai una lunga lettera, forse un testamento, scritta a mano, che diceva:
“Chi trovasse queste due piastrine sappia che appartengono l’una al possessore dello zaino e l’altra ad uno sconosciuto morto in circostanze oscure ma diverse da quelle descritte dai familiari durante la cerimonia funebre per ricordarne la memoria, cui avevo assistito non visto, e che adesso posso rivelare, dopo la mia dipartita.
Le reali circostanze che portarono alla morte dello studente-cadetto, mio amico fraterno, compagno di corso e d’università, sono queste:
“Ci trovavamo entrambi in un viale della Sapienza verso sera, dopo aver assistito all’ultima lezione. Un gruppo di facinorosi ci fermò e, dopo averci chiesto se fossimo o no aderenti alla loro fede politica ed avendoci sentito rispondere negativamente, ci presero e ci condussero in cima alle scale della facoltà e, costringendoci ad andare verso il parapetto, ci ingiunsero di salirci sopra e, tra grida esilaranti e di scherno, ci stavano per spingere nel vuoto. Io a quel punto, per vigliaccheria, gridai che ero dalla stessa loro parte ed, in aggiunta, alzai la mano destra facendo il saluto fascista, mentre il mio compagno alzò il pugno chiuso gridando “Viva Lenin!”. Fu subito preso e gettato con forza dal parapetto, precipitò al suolo dove venne lasciato agonizzante, mentre i fascisti si dileguavano. Ebbi la tentazione di fuggire anch’io per la paura di essere scoperto e coinvolto nel delitto ma poi tornai sui miei passi, mi avvicinai al corpo ormai esanime del mio amico e, con un gesto involontario, quasi volessi nascondere quanto accaduto, e del quale ero stato vigliacco testimone, anche se impotente, gli staccai dal collo la piastrina. Sentii poi le voci concitate delle persone che avevano perpetrato l’aggressione che si avvicinavano e mi nascosi sul retro del palazzo. Vidi che recavano un secchio e un sacco ed assistetti alla macabra cerimonia. Il corpo venne cosparso di una sostanza nera simile alla pece e gli venne scaricata addosso dal sacco una miriade di piume che si appiccicarono ai vestiti. Sembrava un gesto, oltre che di profanazione, di scherno, od un tentativo di far passare per un semplice incidente goliardico quella caduta.
Venni poi a sapere che il cadetto era stato trasportato in gravi condizioni all’ospedale della periferia dove i genitori, avvertiti da una segnalazione anonima, erano sopraggiunti poco dopo, trovandolo ormai morente. Spirò alcune ore più tardi senza aver ripreso conoscenza.
Il padre, un alto ufficiale dell’aeronautica, volle poi portar via la salma ancora coperta di piume ed allestire la camera ardente nel cinema poco distante, diffondendo la voce che il figlio era caduto in servizio in Accademia, forse per voler salvare la sua memoria e celebrarlo da vero pilota.
Volli così conservare la sua piastrina intatta perché la gente sapesse chi fosse quell’eroe, per posarla forse, un giorno, sulla sua tomba come una vera medaglia al valore. Fu aperta un’inchiesta sul caso ma senza alcun risultato. Non si seppe mai se, perché e come il corpo del giovane fosse stato trasportato dalla lontana Accademia a quello sperduto ospedale alla periferia della capitale.”
Qui terminava la lunga lettera.
di Maurizio Chiararia
(continua)