Il lotto 285- capitolo trentasei

“…poiché gli storici devono essere precisi, veritieri e nient’affatto parziali, e né l’interesse né la paura, né il rancore o la simpatia debbono farli torcere dal cammino della verità, che ha per madre la storia, emula del tempo, deposito dei fatti, testimone del passato, esempio e prudenza del presente, monito del futuro.”

Miguel de Cervantes Saavedra

Le ragazze con la pistola

   Verso la metà di febbraio, nonostante avessimo perso numerosi compagni, volemmo riprendere la guerriglia, ma, credo ancora una volta per una spiata, quattro dei nostri compagni, due uomini e due donne, furono arrestati nel loro appartamento pieno di armi. Stranamente, invece di essere subito imprigionati in qualche fosco luogo di detenzione furono processati da un Tribunale Tedesco, il Feldgeright. Le due donne furono condannate e mandate il Germania in un carcere di  massima sicurezza, mentre i due uomini furono assolti ma comunque costretti, in attesa di un secondo processo, nel carcere cittadino.

   Era una semplice ammaccatura. Fuggendo da quell’agguato per sottrarmi alle mani dei soldati tedeschi, dopo svoltato l’angolo inciampai in un cubetto di porfido che sporgeva dal selciato e caddi a faccia in giù. Per fortuna misi un braccio a protezione del mio corpo ma, proprio a causa dell’arto che mi faceva da scudo e che premette sul mio torace nella caduta riportai una lesione alle costole anteriori. Mi rialzai barcollando. Sembrava che non avessi niente di rotto ed alcuna ferita, così continua a correre per raggiungere un posto più sicuro. Ero vicino alla mia abitazione che condividevo con la mia compagna così mi avventurai tra i vicoli fino a raggiungere il portone di casa. Non sapevo se la mia compagna fosse tornata dall’ispezione nel Ghetto ma mi augurai di trovarla già su, con le braccia aperte per soccorrermi ma non fui così fortunato. Mi accasciai su una poltrona del soggiorno, mi tolsi la giacca e la camicia e constatai che la caduta non mi aveva lasciato del tutto indenne. Avevo un largo livido nella parte anteriore del costato e, nell’adagiarmi sullo schienale della sedia avvertii delle fitte persistenti in quel punto, tanto che pensai di essermi lesionato gravemente. Il mio pensiero andò subito ai miei compagni di lotta e soprattutto alla mia compagna che mi avevano visto sempre affrontare i pericoli senza impedimenti ma mi feci forza, mi alzai, mi applicai una fasciatura di fortuna, sopportai stoicamente il dolore e mi stesi sul letto della camera accanto in attesa che lei tornasse.

   Era una giovane che, come avevo visto in precedenti occasioni, dimostrava un notevole sprezzo del pericolo, una capacità di adattarsi alle varie situazioni in cui ci trovavamo scoperti ed una grande furbizia nell’affrontare il nemico. Vestiva sempre elegante cosicché nell’approcciare chiunque, spia, informatore, gerarca, ufficiale delle forze occupanti, non aveva l’aria certo di essere una partigiana, ancor meno una cospiratrice o una persona sospetta. Portava sempre una pistola, che nascondeva nella borsetta, anche se odiava le armi e mi dicesse che le portava solo per difendermi, visto l’amore che mi portava. In fondo ero stato io il primo ad averla iniziata alla guerriglia, lei che non aveva ancora compiuto vent’anni ed abitava ancora con i suoi genitori, che tra l’altro la osteggiavano fermamente dall’intraprendere quel genere di avventura. Il fascino del guerrigliero, quale io pensavo immeritatamente di avere, l’aveva colpita sì ma dentro di sé aveva già quella determinazione a combattere il nemico che le derivava dalla sua infanzia passata in un paese straniero, crogiuolo di razze e di religioni, che l’aveva educata a combattere ogni genere di discriminazione e oppressione. Quando l’esercito germanico occupò il suo paese lei, di lingua tedesca e nel contempo francese, conoscendo nel profondo il mondo ebraico, si schierò, pur essendo ancora adolescente, subito dalla parte di quel popolo perseguitato, lei che, come soleva dire, amava i tedeschi ma odiava i nazisti.

   L’indomani avevamo un appuntamento con una coppia di gappisti per un’altra azione importante, vicino a una ennesima fontana del centro, o meglio dietro, visto che questa formava un nascondiglio sicuro dovuto alla valva verticale di una conchiglia aperta che la caratterizzava. Si affacciava su una grande piazza con al centro un’altra fontana, più imponente, anch’essa in stile marinaresco, composta da quattro delfini in mezzo ai quali si ergeva la statua di un dio marino. Era la stessa piazza che era stata teatro di una delle prime azioni di tutto il gruppo, quella dell’assalto al convoglio tedesco all’uscita del cinema.

    Ci eravamo appostati in quel luogo, con la mia compagna  e quell’altra coppia quando vedemmo l’ufficiale tedesco che dovevamo eliminare scendere lungo la strada. Sbucammo all’improvviso (io con qualche difficoltà, vista la mia lesione) da dietro la conchiglia, io e la mia compagna estraemmo per primi le pistole ma ad un certo punto la mia e quella della mia compagna non funzionarono, quindi intervennero gli altri due che fecero fuoco, questa volta con successo. L’ufficiale, colpito in più punti,  rovinò di faccia pesantemente al suolo, senza avere neanche il tempo di estrarre la pistola.

   In quel momento, vedendo il corpo ormai esanime del tedesco notai che si stava riproducendo quello che lei stessa mi aveva raccontato in un capitolo precedente, anche se con protagonisti diversi. Devo confessare che avevo avuto qualche sospetto che quello che era avvenuto molto probabilmente nello stesso luogo dove ci trovavamo, e con la stessa dinamica, fosse stato qualcosa di irreale, qualche parto della sua (o della mia) fantasia, con personaggi talmente improbabili da farmi pensare che quelle persone cadute allora avessero fatto finta di morire e fossero ancora vive e pericolose, che fossero spie del nemico e vagassero ancora nella città in cerca di partigiani da segnalare alle autorità. Furono poi ritrovati quei corpi, uccisi in un modo così rocambolesco, e se sì, dove furono portati e da chi? Non volli comunque rendere partecipe la mia compagna di quelle mie elucubrazioni per non allarmarla ulteriormente, la presi per mano e ci dileguammo imboccando una stretta strada in salita accanto alla fontana.

   Nei giorni successivi venimmo a sapere che la nostra giovane e ardimentosa compagna, che da mesi progettava quell’azione, aveva finalmente individuato,  in un crocicchio non lontano dalla precedente sparatoria, la macchina del Commissario dell’Urbe. Certa di riuscire a colpirlo sparò diversi colpi di pistola al suo indirizzo ma la macchina improvvisamente scartò di lato e i proiettili andarono a vuoto. Chissà se ci si sarebbe presentata di nuovo un’occasione come quella, ma non desistemmo dal colpire in seguito non solo i tedeschi ma anche i loro sgherri collaborazionisti.

di Maurizio Chiararia

(continua)

Print Friendly, PDF & Email