Trasmettere l’eredità per educare ad essere liberi

Poiché l’eredità non è una rendita, ma un processo di riconquista di ciò che già ci appartiene, non può essere assimilata alla ripetizione ossequiosa e formale di ciò che è già stato, a un’attività di passivo assorbimento praticata con lo sguardo rivolto esclusivamente all’indietro. Al tempo stesso l’eredità non può essere il rifiuto del passato e della memoria perché “il movimento dell’ereditare si situa sul bordo tra la memoria e l’oblio, tra la fedeltà e il tradimento, tra l’appartenenza e l’erranza, tra la filiazione e la separazione. Non l’uno contro l’altro ma l’uno nell’altro. L’atto dell’ereditare implica la dimensione della trasmissione di una generazione all’altra”[1], lontana dalla soggezione al passato e anche dalla libertà senza responsabilità e senza memoria. In questo senso, l’eredità autentica è sempre l’eredità di una testimonianza e di una passione che agisce nella direzione della libertà.[2]

Nel suo saggio L’ebreo non ebreo, Isaac Deutscher[3] racconta un episodio del Midrash, la storia del santo e saggio Rabbi Meir, pilastro dell’ortodossia mosaica e coautore della Mishnà, che aveva per maestro di teologia l’erudito Elisha ben Abiyu detto Akher, che significa ‘lo straniero’. “Un sabato, Rabbi Meir si trovava insieme al suo maestro, e come al solito i due erano impegnati in una profonda discussione. L’eretico procedeva in groppa a un asino, e Rabbi Meir, non potendo cavalcare il giorno festivo, gli camminava a fianco talmente assorto nell’ascoltare le sagge parole che scaturivano dalle labbra dell’eretico, da non accorgersi ch’erano giunti al confine oltre il quale, stando alle norme rabbiniche, nessun ebreo poteva avventurarsi di shabbat. Ma il grande eretico si volse verso il suo allievo ortodosso, e gli disse: “Abbiamo raggiunto il confine, dobbiamo dividerci: non accompagnarmi oltre. Torna indietro!”. Rabbi Meir fece dunque ritorno alla comunità ebraica, mentre l’eretico proseguiva sul suo asinello, oltre i confini del giudaismo. (…) Ma chi era, costui? Sembrava appartenere al giudaismo, e, nel contempo esserne fuori. Aveva manifestato un singolare rispetto per l’ortodossia del suo allievo, facendolo ritornare tra gli israeliti in quel santo giorno del sabato; però, incurante dei canoni e dei riti, aveva varcato i confini. (…)”.

La parola del maestro è autorevole, ma non autoreferenziale. Il suo magistero non consiste tanto nell’aiutare il discepolo ad apprendere, quindi a formarsi attraverso l’imitazione, e nemmeno nell’istruire, dove è il sapere a primeggiare. Ciò che qui è in gioco è l’educazione alla libertà, che trasforma una relazione asimmetrica in una relazione simmetrica, piena di rispetto. La posizione del maestro diviene, al tempo stesso, centrale e relativa perché il paradosso consiste nel fatto che la libertà può sorgere solo da colui che vuole essere libero. In altri termini, si tratta di distinguere in un processo educativo ciò che è programmabile da ciò che non lo è, ciò che proviene da una tecnica da ciò che è il risultato dello slancio e della sorpresa[4].

“L’educazione a vivere – afferma Morin – deve favorire, stimolare una delle missioni di ogni educazione: l’autonomia e la libertà della mente. (…) Non c’è autonomia della mente senza dipendenza da ciò che la nutre, cioè dalla cultura, né senza coscienza dei pericoli che minacciano questa autonomia, cioè dei pericoli dell’illusione e dell’errore, né senza coscienza delle incomprensioni reciproche e molteplici, delle decisioni arbitrarie nell’incapacità di concepire i rischi e le incertezze”[5].

È perciò necessario sentirsi liberi per accogliere il mondo, la sua bellezza e gli altri intorno a noi, per riuscire a vedere davvero; voler comprendere gli altri implica necessariamente una comprensione di sé stessi e la capacità di sapersi ascoltare. Forse si può apprendere una metodologia, una tecnica, con la quale imparare, quanto più possibile, ad instaurare delle buone relazioni basate sull’ascolto, di sé stessi e degli altri.

Ma il saper ascoltare davvero, il riuscire ad essere più o meno empatici, non deriva dall’acquisizione di una semplice modalità tecnica, che si può apprendere a tavolino o sui manuali. Come scrive Rubem Alves, “La bellezza non è conoscenza, è emozione. E l’emozione è sentimento. Ma i sentimenti non nascono a comando. Non posso comandare a qualcuno di sentire la bellezza che sto sentendo io”.[6]

Cosa accade davvero dentro noi stessi nel momento in cui decidiamo di ascoltare la nostra voce interiore, e quindi come ci predisponiamo all’ascolto dell’altro?

Viviamo in una società in cui la fretta, la velocità, il “non perdere tempo” sono tutte regole assolute, che in qualche modo decidono per noi e ci organizzano la vita. Non ci rendiamo più conto che per ammirare, per ascoltare, per pensare occorre fermarsi. Concentrarsi nell’attimo esatto in cui quel briciolo di esistenza ci passa vicino, dentro, nel fondo. Solo così è possibile riscoprire la bellezza del mondo e degli altri: sembrerà di guardare le stesse cose alle quali siamo abituati, ma ci sembreranno completamente differenti, sembrerà di non averle viste mai. Il teologo e sociologo Jaques Leclercq, nel suo libro Elogio della pigrizia, si chiede: “E i Magi, credete forse che avrebbero visto la stella, se non fossero rimasti talvolta sulla terrazza della loro casa ad osservare lungamente il cielo?”.[7]

Il teologo Frei Betto parla di “educazione per l’amore e per la solidarietà” come un processo che va costruito pedagogicamente: solo così forse riusciremo di nuovo a vedere degli uomini anziché solo delle barche alla deriva, dei bambini anziché solo dei “minori”, tecnicamente intesi, delle anime anziché solo dei corpi informi, delle storie di vita anziché solo delle rughe sul viso, degli esseri umani anziché solo dei problemi.

Marco Del Corso, nella postfazione al libro di Rubem Alves Pedagogia e desiderio sostiene: “Se quest’epoca poi è descritta come quella ‘delle passioni tristi’, abitata dall’ospite inquietante che è il nichilismo assieme al narcisismo, allora tornare a indagare il desiderio aiuta a cercare i ‘rimedi’. Con Alves, infatti, possiamo affermare che dobbiamo ‘tornare a desiderare’. E non si tratta di una concessione al desiderio del mercato, quello del consumo e della pubblicità. Il desiderio (…) è quello capace di ‘imporre l’altro’: non più soggettività autoreferenziale, ma relazione aperta oltre l’io, perché il desiderio, diversamente dal bisogno, comporta responsabilità. Perché desiderare è andare oltre l’esistente, è ribellione alla strategia della continua offerta che dirige e veicola i desideri delle persone indirizzandoli verso un unico sogno (quello di avere sempre di più). Occorre dare spazio alla dimensione desiderante delle culture (e delle religioni), capaci di immaginare il mondo in modo diverso dalla cultura dominante. Qui il contributo politico del desiderio. Proprio perché (…) per poter cambiare le cose bisogna prima saperle immaginare diverse”.[8]

Per riprendere Freire, un’“educazione liberatrice”, uno strumento di umanizzazione in processo attraverso una prassi fondamentale degli uomini sul mondo, per trasformarlo.

di Francesca Mara Tosolini Santelli


[1] Massimo Recalcati, “Imago patris: fallimento e realizzazione dell’eredità”, in in Eredi. Ripensare i padri, a cura di Ivano Dionigi, Bur, 2012, pag.70.

[2] Cfr. Roberto Alessandrini, Fare lezione, L’eredità dei saperi in un mondo digitale, in Salesianum 80/2018, pag. 531-551.

[3] Isaac Deutscher, L’ebreo non ebreo e altri saggi, Milano, Mondadori, 1969, pag. 37-39.

[4] Cfr. Christof Theobald, “Éduquer à la liberté”, in Etudes, janvier 2018, pag. 82-83.

[5] Edgar Morin, Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione, Milano, Raffaello Cortina, 2015, pag. 35.

[6] Rubem Alves, Pedagogia del desiderio, EDB, Bologna, 2015, pag. 72.

[7] Jacques Leclercq, Elogio della pigrizia, EDB, Bologna, 2018, pag. 29.

[8] Rubem Alves, Pedagogia del desiderio, EDB, Bologna, 2015, pag.143.

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