Le morti non servono per la pace

Mentre scriviamo, a tre giorni dalla una nuova esplosione di violenze divampata in Israele e nei territori occupati, è partito l’attacco di terra contro la Striscia di Gaza. Gli scontri hanno già provocato centinaia di morti. Tra loro, afferma l’Unicef, molti bambini.

Ad innescare la miccia è stata l’irruzione della polizia israeliana all’interno del complesso della moschea Al Aqsa al termine delle preghiere dell’ultimo venerdì del Ramadan.

Gli scontri tra le forze israeliane e i fedeli, che hanno provocato più di cento feriti, si sono abbattuti su una Gerusalemme già blindata a seguito delle tensioni seguite alle demolizioni di abitazioni palestinesi nel quartiere di Silwan e alle proteste contro lo sfratto di altre famiglie palestinesi nel distretto di Sheikh Jarrah, a est della città. Il quartiere, abitato a maggioranza dai palestinesi, è considerato sacro dagli ebrei perché qui si trova la tomba di un alto sacerdote del Secondo Tempio. Le case degli sfrattati, oggetto di una disputa pluridecennale, sono state assegnate dai tribunali israeliani ai coloni che ne reclamano la proprietà. Ovviamente non si tratta di una normale questione legale. I palestinesi, e anche molti israeliani, considerano questi sfratti e queste demolizioni delle vere operazioni di pulizia etnica.

Nel pieno degli scontri di piazza, mentre gli Usa – più interessati ad altri quadranti geopolitici – osservano da lontano lo svolgersi degli eventi e l’Egitto e il Qatar tentano una mediazione, Hamas ha conquistato il centro della scena. Il Movimento islamico di resistenza, infatti, ha prima imposto un ultimatum al governo israeliano chiedendo il ritiro delle truppe dalla Spianata delle Moschee e, al suo scadere, ha iniziato il lancio dei missili contro lo Stato ebraico. Scatenando l’immediata risposta dell’aviazione ebraica su Gaza e la mobilitazione dell’esercito.

Niente di nuovo sotto il sole. Sembrerebbe un’escalation del tutto lineare, per quanto terribile. Il portato avvelenato di decenni di occupazione e frustrazione. Ma, come sempre accade in quest’area, è sempre saggio chiedersi a chi giova questa nuova violenza. Spesso si scopre che gli interessi di quelli che appaiono come nemici irriducibili finiscono per coincidere. Quelli di una élite politico-religiosa-militare che trova la sua permanenza al potere nella continuazione di una pluridecennale guerra carsica.

Burattinai armati di una sufficiente dose di cinismo che non esitano a gettare sul tavolo “una manciata di morti” per perseguire i loro scopi.

E allora non va sottovalutato che, a partire dal 22 maggio, erano state indette, sia in Cisgiordania che a Gaza, le elezioni politiche. Per la prima volta dopo 15 anni i palestinesi sarebbero stati chiamati ad esprimersi.  Con l’avvicinarsi del voto, però, i sondaggi restituivano percentuali molto preoccupanti per la lista presieduta di Abu Mazen, l’ottantaseienne presidente in carica da 16 anni e a capo di un sistema da molti ritenuto corrotto. Cosa giustifica meglio di una nuova fase di violenze il rinvio sine die delle elezioni?

Israele, da parte sua, è alle prese con una turbolenta fase politica che si protrae da anni. Per Benjamin Netanyahu, che ha accusato Hamas di aver oltrepassato una “linea rossa” dirigendo missili verso Gerusalemme, una nuova stagione di tensione è l’ideale per stringere l’opinione pubblica intorno alla sua figura, tentare di impedire la formazione di un nuovo governo presieduto Yar Lapid, astro nascente dell’opposizione, che si sarebbe potuto formare anche con l’appoggio di uno dei due partiti arabi israeliani e portare avanti politiche di annessione. Quanto all’altro attore, Hamas, che governa da anni una popolazione stremata dall’embargo e dal covid alla quale non ha saputo dare risposte, con gli attacchi missilistici ha riportato in primo piano il suo ruolo di movimento di ispirazione religiosa, di difensore della fede e dei luoghi sacri.

Eccoli, allora, gettati sul tavolo i morti di cui tutti hanno bisogno. Tutti tranne coloro che cercano la pace.

di Enrico Ceci

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