ECONOMIA ED ECOLOGIA: CONFLITTO O ALLEANZA?

Con implacabile regolarità la cronaca riporta alla nostra attenzione i problemi relativi alla produzione di energia. L’uso ancora prevalente del fossile (gas, petrolio e carbone) è causa delle grandi criticità del nostro tempo: provoca il cambiamento climatico globale, è la principale fonte di inquinamento atmosferico (con non poche conseguenze dirette sulla salute), pesa sull’economia e, per finire, alimenta le tensioni internazionali e le minacce di guerra.

Recentemente l’epidemiologia del covid-19 ha dimostrato con chiarezza lo stretto legame tra inquinamento atmosferico e malattia. La pandemia, infatti, ha colpito con maggiore intensità le aree geografiche a maggior concentrazione di polveri sottili nell’aria, in Cina (Wuhan) come in Italia (pianura padana). Per contro, la riduzione delle attività produttive e del traffico stradale, dovute alle misure anti pandemiche, ha comportato una sensibile riduzione della mortalità per infarto e, più in generale, per patologie cardiorespiratorie.

Forse i media non hanno dato l’enfasi giusta al fatto che l’inquinamento è ben più letale della stessa pandemia: secondo l’OMS, ogni anno nel mondo muoiono sette milioni di persone a causa dell’inquinamento, mentre la pandemia ha fatto “soltanto” 5,67 milioni di morti in due anni.

I dati europei non sono più incoraggianti: nell’UE sono state calcolate 307.000 morti premature l’anno per l’esposizione cronica al particolato fine, 40.400 per l’esposizione cronica al biossido di azoto e 16.800 per l’esposizione all’ozono (dati del 2019, gli ultimi consolidati). In questo poco gradevole contesto, l’Italia è ai primi posti con rispettivamente 49.900, 10.640 e 3.170 morti premature l’anno.

Certo, non c’è un vaccino contro le malattie da inquinamento, ma non si capisce perché la nostra moderna (in)civiltà sia così timida e indecisa nell’impegnarsi a debellare l’inquinamento ambientale.

Se l’impatto delle scelte energetiche sulla salute è importante, non si può trascurare quello sull’economia. Ce lo ricorda il recente fenomeno del “caro bollette”. L’uso ancora prevalente dei combustibili fossili ci espone all’altalenante andamento dei prezzi e ci condanna a dipendere dai fornitori di gas e petrolio. L’aumento del fabbisogno energetico dovuto alla ripresa produttiva, in sinergia con la stagione fredda e con le crisi internazionali, ha fatto impennare il prezzo dell’energia, spingendo in alto l’inflazione e i costi della produzione industriale. Le bollette, poi, non le pagano soltanto i privati cittadini, ma tutte le attività sulle quali si regge la nostra società: gli ospedali, i laboratori di ricerca, le scuole, gli uffici pubblici e privati, i negozi e via dicendo.

Non è la prima crisi di questo tipo: quelli della mia età ricordano bene la crisi petrolifera degli anni settanta, che costrinse a provvedimenti drastici per ridurre i consumi, cambiando il volto notturno delle città italiane che divennero da un giorno all’altro più buie e deserte, mentre l’inflazione cresceva a doppia cifra ogni anno. È noto che l’aumento del prezzo del petrolio sia stato, all’epoca, scientemente e deliberatamente provocato dai Paesi produttori mediante la riduzione delle estrazioni. Sulla base del precedente storico, forse non è assurdo ipotizzare che alla crisi attuale possa contribuire qualche manovra speculativa.

Questa volta l’impennata dei prezzi cade con preoccupante tempismo sull’avvio della tanto attesa ripresa economica, rischiando di vanificarla.

Giustamente il ministro della transizione ecologica ha sottolineato il rischio che le esigenze ambientali possano confliggere con quelle economiche, e già a luglio aveva detto, a proposito del caro bollette, che ”dobbiamo far sì che la gente non ‘si risenta’ contro la transizione ecologica”.

Ma non è colpa della transizione: se mai, è colpa dei ritardi su questa strada. Non esistono misure “troppo rapide” come lo stesso ministro dice di temere (“la transizione ecologica si gioca sui tempi: qualunque misura troppo rapida rischia di creare grossi problemi alla società, ai lavoratori, alle classi più vulnerabili e alle piccole e medie imprese”). È, anzi, ragionevole pensare che l’aumento dei prezzi sia sostenuto proprio dalla lentezza nello spostare le fonti energetiche dal fossile al rinnovabile. Lentezza che perpetua la nostra condizione di vulnerabile dipendenza energetica.

Il terzo, non meno importante fattore che dovrebbe spingerci ad abbandonare i combustibili fossili è quello legato alle tensioni internazionali ed ai conseguenti rischi di guerra. La gestione delle risorse energetiche fa da sfondo alle tante crisi politico-militari del medio oriente, come pure all’attuale crisi russo-ucraina. La prospettiva di ridurre gas e petrolio a un ruolo economico marginale sarebbe il miglior antidoto ai “venti di guerra”, quasi una garanzia di pace durevole. L’economia, ben si è capito, è sempre stata la molla principale delle tensioni geopolitiche, e le tentazioni possono essere irresistibili, pur di controllare le fonti energetiche. L’auspicata transizione ecologica, da sola, forse non garantirebbe la pace, ma eliminerebbe un indebito mezzo di pressione nel gioco dei rapporti internazionali e un incentivo alle soluzioni militari.

In conclusione, un mondo in cui la produzione energetica fosse finalmente affrancata dal fossile sarebbe più sano, più prospero e più sicuro, perché le fonti energetiche rinnovabili non soltanto non inquinano, ma sono globalmente disponibili e non privatizzabili. D’altra parte, neanche il nucleare, pur non producendo CO2 né particolato, può vantare queste caratteristiche: ce lo insegna l’annosa e pericolosissima crisi irachena.

È questa la meravigliosa sfida che l’umanità deve affrontare, è questa la chiave per la prospettiva di un futuro migliore.

Si potrebbe, anzi, dire un po’ drasticamente che la transizione ecologica sia l’unico mezzo per avere ancora un futuro.

Di fronte a questo scenario, la timidezza della classe politica e le resistenze di gran parte del mondo economico rivelano tutta la loro miopia e tutto il loro squallore.

Ci sono indubbiamente ostacoli e difficoltà, ma forse si deve partire da una nuova mentalità: ambiente, salute, sicurezza, indipendenza energetica devono essere messi al centro dell’azione politica, avendo ben chiaro che sono un traino, non un ostacolo alla crescita economica; per contro, mantenere al centro dell’attenzione gli interessi economici (ma quali e di chi?) si sta dimostrando nei fatti una scelta ingannevole e controproducente.

Sarà vero, diranno i più scettici, si fa presto a dire, ma il difficile è tradurre in pratica le buone intenzioni.

Non voglio dire che sia facilissimo, ma si può. Come? Per non abusare della pazienza dei lettori, ne parleremo più ampiamente la prossima volta.

di Cesare Pirozzi 

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