È cambiato qualcosa? (3/4)

E ttu, forsi, chi hai ciunchi li vrazza? (E tu, forse, hai le braccia mozzate?)
O puru l’hai ‘nchiuvati commu a mia? (Oppure le hai inchiodate come le mie?)
Né speri c’autru la faria ppì tia. (Non sperare che altri la facciano per te.)

Ed il servo contadino, fedele al motto di Victor Hugo: “Arriva un’ora in cui la protesta non è più sufficiente: dopo la filosofia, è necessaria un’azione” non se lo fece ripetere due volte. Scese in strada ed avanzò le proprie rivendicazioni alla terra, al lavoro e ad un futuro che potesse garantirgli una vita degna di essere vissuta. Ma nessun padrone terriero, nessun latifondista si sarebbe mai sognato di far assurgere il servo contadino al rango di essere umano che lottava per la difesa dei propri diritti e per garantire un futuro alla propria famiglia. Erano dei delinquenti e basta. Erano briganti! E come tali andavano trattati.

Garibaldi parti dalla Sicilia, risalì il sud e, dopo aver sconfitto un tentativo di controffensiva dell’esercito borbonico, nella battaglia del Volturno, il 26 ottobre 1860 incontrò a Teano il Re d’Italia, Vittorio Emanuele II, e lì si concluse quella che la storia ricorda come la spedizione dei Mille.

Ma ormai gli animi dei popoli del Sud si erano riscaldati e ogni cafone, per dirla con Ignazio Silone, aveva in animo il secolare problema della usurpazione delle terre da parte dei ricchi possidenti ed era costretto a vivere, anche in esito alle iniziative doganali volute dal Cavour, in un grave stato di povertà, degrado e disoccupazione. Gli stessi graduati e semplici soldati dell’esercito borbonico, ormai sciolto, ricercavano un modo di sopravvivenza, che purtroppo non c’era, ed allora si dedicarono alla ribellione, alla ricerca dei beni e delle ricchezze che possedevano solo i padroni ed i ricchi proprietari terrieri. In poche parole, iniziarono, in larghe parti del Sud, una ferma ricerca di sopravvivenza che in alcune situazioni sfociò anche in efferata violenza. Era il casus belli voluto dal Governo centrale che li etichettò come quattro straccioni di briganti” che non volevano arrendersi al nuovo re. Dapprima i cosiddetti briganti insorsero e chiesero la terra poi, al rifiuto opposto dalla proprietà terriera e dalle istituzioni, saccheggiarono tutto quello che era depredabile e trascesero in una aperta violenza, quasi a voler codificare il pensiero di Brecht: quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere. Dopo le speranze suscitate da Garibaldi e le seguenti ed amare illusioni i cosiddetti straccioniesternarono il loro risentimento e lo scontro con la realtà divenne feroce. Così a Pontelandolfo e Casalduni, correva l’anno 1861, i briganti se la presero con un battaglione di soldati, uccidendone 41. Ma siccome, come ampiamente noto, anche quando i ricchi vanno in guerra sono sempre i poveri a morire, tale fatto scatenò una feroce repressione. Il Re inviò al sud il generale Enrico Cialdini al comando di oltre cinquantamila uomini. I comuni di Pontelandolfo e Casalduni furono al centro dell’attenzione dell’esercito regio che rispose alla violenza con una indescrivibile crudeltà, ferocia e rappresaglie nei confronti delle inermi popolazioni accusate di “manutengolismo”. Dagli atti di archivio risulta che negli ordini del generale Cialdini compare la seguente disposizione: «il doloroso e infame fatto di Casalduni e Pontelandolfo deve essere castigato in modo che di quei due paesi non rimanga più che pietra sopra pietra». Il generale ordinò l’incendio dei due paesi e la fucilazione degli abitanti «meno i figli, le donne e gli infermi». L’ufficiale Melegari scrisse nelle sue memorie: «Era giunto finalmente il momento di vendicare i nostri compagni d’armi, era giunto il momento del tremendo castigo» e quella strage, poco narrata nei libri di storia, assunse proporzioni immani e crudeltà inimmaginabili. I soldati circondarono ed assalirono i due paesi con i fucili spianati e le baionette inastate e cominciarono a sparare, a incendiare iniziando dalla casa del sindaco e la punizione assunse proporzioni disumane e catastrofiche. Nessuno fu risparmiato: furono uccisi giovani, vecchi, donne e fanciulle. I soldati abusarono dell’ora notturna e della conseguente nudità degli inermi abitanti e facendo leva sulla sorpresa si abbandonarono a sozzi saccheggi e ad infami azioni. Le cronache di allora parlano di uomini ammazzati lungo le vie e di donne violentate e uccise con particolari che spingono al ribrezzo.

E Garibaldi? Lasciò Caprera e ritornò in Sicilia e da lì ripartì, accompagnato da un congruo numero di camicie rosse, verso Roma con l’obiettivo di liberarla dal governo pontificio. Partì al grido di “Roma o morte” e, per la verità, fece poca strada perché fu ferito sull’Aspromonte dove il Governo di Urbano Rattazzi aveva inviato l’esercito per fermarlo e decretò lo stato d’assedio del Mezzogiono che durò fino al novembre 1862. Già nell’estate del 1862 il re Vittorio Emanuele II aveva proclamato lo stato d’assedio per le regioni dell’Italia meridionale, ma la resistenza lo indusse ad un atto ancora più spietato. Siccome neanche lo stato d’assedio fu sufficiente a calmare le acque, nell’agosto del 1863, si ricorse ad una legislazione eccezionale attraverso cui legalizzare ancora una volta la repressione: la Legge Pica, il cui titolo completo era Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette e per la sua applicazione venivano istituiti sul territorio delle province definite come “infestate dal brigantaggio” tribunali militari. Si trattava, a ben vedere, di una legge speciale che, di fatto, era incostituzionale e divideva in due l’Italia: da una parte il Centro e il Nord e dall’altra tutte le regioni del Meridione. Quindi, questa Italia unita, già dal punto di vista giuridico e normativo, veniva separata. La legge Pica stabiliva che poteva essere qualificato come brigante (e, dunque, giudicato dalla corte marziale) chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone. Veniva inoltre concessa la facoltà di istituire delle milizie volontarie per la caccia ai briganti ed erano stati stabiliti dei premi in danaro per ogni brigante arrestato o ucciso. Veniva punito con la fucilazione (o con i lavori forzati a vita, concorrendo circostanze attenuanti) chiunque avesse opposto resistenza armata all’arresto, mentre coloro che non si opponevano al fermo potevano essere puniti con i lavori forzati a vita o con i lavori forzati a tempo (concorrendo circostanze attenuanti), salvo, però, maggiori pene, applicabili nel caso in cui costoro fossero stati riconosciuti colpevoli di altri reati.

In sostanza, la legge Pica non faceva alcuna distinzione tra briganti, assassini, contadini, manutengoli, complici veri o presunti, uomini o donne e con essa i sabaudi introdussero il reato di brigantaggio e resero legale ogni forma di violenza. Esattamente come avveniva nel Medio Evo quando venivano mandati al rogo i dissidenti, l’introduzione di questo reato diede agli invasori l’alibi per sedare ogni rivolta che, essendo stata introdotta la responsabilità comune consentì di passare per le armi interi villaggi. Contadini, donne e bambini! Chiunque e senza processo fino al raggiungimento del massimo della disumanità, come l’esposizione in pubblica piazza dei cadaveri dei briganti o delle loro teste mozzate. Scriverà Gramsci: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”.

Dell’inganno dell’unità d’Italia i meridionali si accorsero in pochissimo tempo, appena qualche mese, e capirono che Garibaldi, anche contrariamente a quanto da lui stesso ritenuto, non era venuto a portare la libertà ma “aveva solo sostituito una dominazione con un’altra, assai peggiore della prima per le genti del Sud che si ritrovarono depredate dei loro averi e massacrate sotto ogni punto di vista. Una verità che, come sappiamo, sta venendo fuori grazia al lavoro ‘revisionista’ di alcuni storici rimasti liberi dalle maglie della propaganda ufficiale e che si sta diffondendo sempre di più alla faccia della pedanteria di pseudo intellettuali troppo attenti a non dare dispiaceri al potere ufficiale”. Una verità che può tranquillamente essere letta in capolavori letterari quali: Il Gattopardo, I vecchi e i giovani ed I Vicerè e che trova riscontro anche nel sito dell’Arma, così come riportato dal blog perlacalabria.woordpress.com che così riporta: “La legge Pica permise la repressione senza limiti di qualunque resistenza: si trattava, in pratica, dell’applicazione dello stato d’assedio interno. Senza bisogno di un processo si potevano mettere per un anno agli arresti domiciliari i vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i sospetti fiancheggiatori di camorristi e briganti. Nelle province dichiarate infestate da briganti ogni banda armata di più di tre persone, complici inclusi, poteva essere giudicata da una corte marziale. Naturalmente alla sospensione dei diritti costituzionali (il concetto di diritti umani di fatto ancora non esisteva) si accompagnarono misure come la punizione collettiva per i delitti dei singoli e le rappresaglie contro i villaggi”.

Sarà lo stesso Garibaldi, nella fase finale della sua vita, a rendersi conto dell’inganno e prendere posizione contro quella violentissima repressione. Così inveisce contro il Governo: “Mentre in Europa il progresso umanitario, interpreti i grandi uomini di tutte le Nazioni, è unanimemente deciso contro la pena di morte, il Governo di Palazzo Madama, nelle sue velleità eroicamente bestiali e degne dei tempi di Borgia, fa strombettare da tutti gli organi suoi salariati i fasti anti-briganteschi del Mezzogiorno. Non passa un solo giorno, ove non troviate un mucchio di vittorie riportate sui briganti, ove questi sono stati sbaragliati e distrutti e dei “nostri” non un solo ferito. Il più importante poi è questo: dieci briganti presi e subito fucilati, quindici briganti presi e subito fucilati. Ma io dico: li avranno poi guardati in faccia, per sapere se veramente erano briganti oppure no prima di fucilarli”? E poi ancora, rivolto ai governanti di allora, dopo aver detto che non era quella l’Italia che avrebbe voluto e per la quale aveva combattuto, disse: “ Eh! Signori governanti, la guerra l’ho fatta ancor io e so che un Ufficiale qualunque, massime un subalterno, procura sempre di far valere il suoi servizi al di sopra di ciò che valgono. In uno Stato poi ove si fa la corte all’Esercito ed ove per conseguenza ogni Ufficiale ha davanti a sé ogni giorno dei cataloghi di ricompense e medaglie e croci che lo devono naturalmente solleticare. Dimodoché non è difficile che per aumentare il numero dei suoi trofei, senza guardarvi tanto per minuto, mandi all’altro mondo qualche povero diavolo che sappia di brigante come io so all’esempio di quel tale che, dovendo far ammazzare un certo numero di protestanti, qualcheduno gli osservava che non tutti erano protestanti e quello rispondeva: lasciate che vadano, che al di là Dio saprà riconoscere i suoi.
Dunque allegri! Allegri a fucilare i briganti e come sono fieri quella caterva di smerdafogli ministeriali…E poi chi sono questi briganti? Poveri infelici!… Chi ne ha veramente la maggior colpa, è il Governo di piazza Castello che ne darà conto a Dio della vita di tanti innocenti creature sacrificate…
(Giuseppe Garibaldi Scritti e discorsi politici e militari)

Diceva Gramsci: “Quando nel passato si ricercano le deficienze e gli errori non si fa storia, ma politica attuale” Riteniamo, pertanto, che ogni rielaborazione del nostro passato, purché fondata su fatti e non su convinzioni politiche che siano di parte o, peggio ancora, prezzolate e che sia anche avulsa da sterili esercizi estetici, assurga al ruolo, pur se nel limite soggettivo, di rivoluzione culturale necessaria e doverosa. (Continua)

di Pietro Lucidi