Te lo dicivo…

Cos’è la poesia? Pasolini disse che si tratta di “qualcosa di oscuro che fa luminosa la vita” e Giambattista Vico ci ricordò che il suo compito, il suo “più sublime lavoro è dare senso e passione alle cose insensate”. Noi, molto più semplicemente, amiamo pensare che si tratti di un magnifico infinito di intrecci tra realtà e fantasia, di un volo pindarico tra il vissuto quotidiano e le ancestrali aspirazioni ad un futuro immaginifico, perché se è vero, come disse Bernard Shaw, che “si usa lo specchio per guardare la propria faccia e le opere d’arte per guardare la propria anima”, allora è altrettanto vero che la poesia, come sostenuto da Italo Calvino, può ben essere l’arte che fa entrare il mare in un bicchiere. Qual è allora la Poesia? È forse quella di Ovidio che nelle sue Le metamorfosi si autoincensa a mo’ di epitaffio ed elogia l’immortalità della sua opera: “Ormai ho compiuto l’opera che non potrà cancellare né l’ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il tempo che corrode. Venga quando vorrà quel giorno che ha giurisdizione solo sul mio corpo e ponga fine al tempo incerto della mia vita: salirò tuttavia per sempre con la parte migliore di me alle stelle e il mio nome sarà indistruttibile; e fin dove si estende la potenza romana sulle terre assoggettate, reciteranno i miei versi le labbra del popolo ed io, grazie alla fama, se hanno qualcosa di vero le profezie dei poeti, vivrò per tutti i secoli”. Oppure la poesia è quella di Dante “e par che sia venuta da cielo in terra a miracol mostrare”? Oppure è quella del Petrarca e del suo “colei che sola a me par donna” o ancora quella del Leopardi “così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare? Sì, questa è poesia! Così come ne esistono altre forme che mutano i versi a seconda del numero delle sillabe da cui sono composti. In ogni forma, comunque, il fine ultimo della poesia (poiesis, “creazione”) è sempre quello di accostare parole secondo una logica metrica che si lega al suono musicale delle stesse e riesce a trasmettere sensazioni, concetti e stati d’animo in modo altamente evocativo, essendo quindi capace di assumere il duplice ruolo di vettore di significati e di suoni. Per non parlare della poesia che assume aspetti recitativi e teatrali quando il messaggio viene trasmesso, oltre che con l’ausilio della musica, con una sorta di movimenti mimici corporei. Lo stesso Ovidio, nei suoi Tristia, ci racconta di quanto la poesia possa svolgere una funzione consolatoria e terapeutica. Ma la poesia si ferma qui? Non esistono altre forme di espressione artistica fuori dalla poesia aulica? Certamente sì ed i poeti, quelli con la P maiuscola, che indubbiamente abbondano nei nostri Monti, non ce ne vorranno se attribuiamo un significativo valore, sia pure in modo più sottomesso, anche alla cosiddetta poesia popolare e vernacolare, altamente presente nel centro Italia e che trova espressione, soprattutto, negli stornelli e nella poesia estemporanea. Gli stornelli sono un particolare tipo di poesia, semplice e immediato; generalmente contengono una specifica dose di graffiante ironia oppure sono ad argomento amoroso. Roma ne è sicuramente la sede principe e gli stornelli, brevi ed immediati, hanno la caratteristica di cogliere l’attimo, di immortalare il momento e la voglia di raccontare la vita popolare condendola con l’estro, la genuinità e la specifica particolarità dei cittadini romani, diventando quindi parte integrante del patrimonio culturale del popolo.

Semo li fiori trasteverini

semo signori…senza quatrini,

er core nostro è ‘na capanna

core sincero che nun te inganna.

Si tratta, senza dubbio, di una particolare forma di espressione artistica cantata di getto, istantanea, basata su sfottò e su ironie garbate e mai offensive della reputazione o dell’immagine del destinatario degli strali. Basti sapere che le famigerate Leggi delle XII tavole sanzionavano severamente, anche con la pena di morte, offese che diventavano calunnie diffamanti per chi le subiva. Gli stornelli venivano cantati da balcone a balcone, tra bancarella e bancarella dei mercati e tra carretto e carretto di trasportatori e la loro eco si allargava con i canti dei popolani dei vicoli che assumevano il ruolo di trasmettitori di quella importante forma di sapienza popolare. Discorso a parte e alta dose di pathos rappresentavano invece i cosiddetti canti del carcerato che consentivano ai reclusi di Regina Coeli (noto carcere di Trastevere) di comunicare con l’esterno, sia pure con un linguaggio cifrato, ricevendo anche comunicazioni dai loro cari.

Amore, amore, manneme un saluto,
Che sto a Reggina Celi carcerato,
me sento come n’arbero caduto

da amichi e da parenti abbandonato

Come te pozz’ amá
Come te pozz’ amá
S’esco da sti cancelli
Quarchiduno l’ha da pagá.

Gli stornelli a dispetto vengono invece assimilati a quelli del carcerato e rappresentano gli aspetti più pittoreschi e popolari della vita quotidiana del popolo romano. Vertono generalmente su prese in giro dell’interlocutore, quasi sempre tra un uomo ed una donna. Famosi sono rimasti quella tra Claudio Villa e Gabriella Ferri.

C.V. – Vojo cantà così, fiore de nocchia

Oh Dio quanto sei racchia, racchia, racchia

C’hai ‘r naso che te cola nde la scucchia

G.F. – Vojo cantà così, fiore de zeppo

ma nun lo vedi sì quanto sei tappo

tu madre nun ce s’è spregata troppo

C.V. – Vojo cantà così, fior de genziana

tu canti proprio come ‘na sirena

me pari ‘n’ambulanza quanno sona

G.F. – E a cantà con me nun te ce mette

Perché so’ la fia dell’ammazzasette

E me te magno ‘r core a fette a fette

C.V. – Vojo canta così, quanto sei brutta

Quanno te butti in mare l’acqua scappa

Te pia pe ‘na balena e t’ari butta

G.F. – Vojo cantà così, fior de grispigni

Li facioletti mia tu non li magni

E dentro al piatto mio tu non c’intigni

E sui nostri Monti? Anche qui la voglia di poetare rappresenta ed ha rappresentato una sorta di filo conduttore della nostra cultura ed ha permeato i rapporti interpersonali, sia con le ottave a braccio dei poeti estemporanei e sia con stornelli aventi una forte venatura ironica e che meriterebbero un serio lavoro di diffusione. In questa sede vogliamo limitarci a narrare un attacco riportato da un certo ed imprecisato Pierantozzi contro Guerino del Gaggio e la salace risposta di Requiameterna nei confronti di tal Pierantozzi che commerciava il grano e lo vendeva a peso (interpretando… i risultati della bilancia)

La vigna di Guerino è ‘na fontana:

tutta bucie da la mattina a sera

Requia, Stampabucì, Ntogno Catana

nun ce se sente na parola vera.

C’è Trentavizzie poi che s’arruffiana

e vorta faccia come ‘na bandiera.

Da quer che ne so io, me ne so’ accorto:

Le più innocente so’ Otello e Gigge Morto.

Ed ecco la risposta di Requiameterna:

Regazze state attente a Pierantozze

Che chi lo sta a sentì è robba da pazze.

Ve parla sempre de le su risorze

ve mette in chiaro tutte cose farze.

E le cose so’ due: una è che abbozze,

l’altra è che annate in giro gnude e scarze.

E si nun ve frega co’ la su’ ciancia

ve frega il bilancione e la bilancia.

Per non parlare poi delle pesanti ironie fatte all’indirizzo di soprannomi in genere nei confronti dei quali Nando Bianchi ebbe occasione di scrivere: “I Tolfetani hanno sempre coltivato l’arte del soprannome breve e calzante. Sembra si divertissero un mondo a condensare nella brevità di un epiteto le caratteristiche fisiche ed i connotati morali del proprio prossimo.” Il Bianchi riporta, a tal fine, una brevissima filastrocca di U. Zenti inerente una caratteristica non certamente raccomandabile in società raffinate.

Altra bella sfirzetta che nun nego

de soprannomi cacarcioni è quella

dei Caco, dei Cachini, Cacarella,

Cacalletto, Cacone e Cacasego,

Cacandosso, Cacante e Cacarìa:

tutta de merda è fatta ‘sta genìa

Ad Allumiere, nonostante nell’idioma parlato accenti, toni e pronuncia abbiano una musicalità ben più greve, così come del resto emerge in alcuni stornelli sotto riportati, si preferiva narrare, con quasi un ironico distacco, le pene d’amore, senza mai rinunciare al classico idioma dialettale.

Fiore de fraguela

lasciatela cantà quella petteguela

me pare ‘na gattina quanno smiaguela.

Bocca de fraguela

La tu ma’ te m’boccava co na teguela

E po’ t’ariccontava ‘na profaguela.

Faciole nere

prima le giovenotte te capave

mo te tocca pijatte quello che trove.

R mi amore m’ha mannato ‘n fojo

siggillato co ‘no spicchio d’ajo

e drento c’era scritto “nun te vojo”

Ed allora la conseguenza di tanto ironico e risentito distacco non poteva essere che una e una sola:

Te lo dicivo

che si trovavo mejo te lassavo

Te lo dicivo

ho trovo mejo e t’ho lasso davero

di Pietro Lucidi

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