Bisogna volersi bene

Riavvolgere il tempo, per vivere con gioia la vita davanti a , senza dolore e senza sofferenza, ma con amore. Un amore che manca, che non c’è, perché non riusciamo a vederlo, eppure c’è nei gesti quotidiani di chi meno ce lo aspettiamo. Così, giorno dopo giorno, Momò, il bambino che è in tutti noi, scopre di essere amato.

“La vita davanti a sé” sul palcoscenico del Quirino di Roma, interpretato da Silvio Orlando, in un fantastico, dolce, romantico, disperato, amabile, commovente, monologo di quasi due ore, trasforma il pubblico in tanti piccoli Momò, ognuno con la sua “puttana” madre in grado di esserci in ogni momento della vita che ci emargina senza chiedere scusa.

Silvio Orlando, si muove in modo rallenty, talmente garbato da farci sorridere, anche quando gli occhi si velano di pianto. La sua mimica facciale, molto alla “Eduardo”,sottolinea il disagio conferito ad ogni parola. Parole toste, pesanti, ma espresse con la grazia di un bambino già uomo, o per meglio dire di un uomo ancora bambino, che si interroga sugli orrori dell’Olocausto, sul corso della vita che segue in modo spietato una natura “brutta” che non tiene conto della sofferenza patita, ma ci riserva una sofferenza ancora maggiore, in grado però, di trasformare la bruttezza in bellezza.

La musica dal vivo della Ensemble Orchestra Terra Madre, aiuta il pubblico ad abbattere il filtro che spesso si interpone con l’artista sul palcoscenico. Terra Madre o Madre Terra, la musica aleggia nell’aria, sale piano piano, si insinua in noi, entrando nei polmoni attraverso il respiro al ritmo del battito cardiaco. Tutto avviene con la magia  e l’incanto che solo Silvio Orlando può generare, muovendosi in armonia con la gioia e il dolore provato dall’autore del testo, Romain Gray, al quale rende omaggio mettendo in scena la poltrona verde e il drappo rosso a significare la vestaglia di seta con cui si è suicidato per non far vedere il sangue. Un segno di rispetto per uno scrittore che ha saputo raccontare l’amore emarginato delle classi povere, di una Francia borghese che non si sforza di capire le tradizioni e la cultura di genti “diverse” ma diverse non sono, se non nella loro grande immensa umanità di sentisi Madre di chiunque abbia bisogno i una Madre.

Così Madame Rosa, puttana tra le puttane raccoglie intorno a se i figli di puttana che nessuno vuole, mettendo su, al sesto piano di un palazzo fatiscente, senza ascensore, nel quartiere di Belleville, un asilo di figli di puttana. Figli di puttana ai quali vuole bene come e più delle loro vere madri.

Silvio Orlando usa l’ironia è la leggerezza calviniana per condurci per mano nei meandri di un luogo fatiscente, dove la speranza è la non speranza e dove il sogno serve per dimenticare la vecchiaia che incombe senza fare paura.

Silvio-Momò, racconta una società in degrado nella quale, con grande maturità e senso di responsabilità, inusuale per un bambino di dieci anni, che si fa domande sul significato della vita, attraversando il senso di inadeguatezza e impotenza di fronte ad un mondo che fatica a comprendere. Regole e leggi assurde che causano dolore.

E qui, in questo condominio di emarginati, reiette, trans e puttane, la solidarietà assume un significato profondo, fatto di azioni, gesti, condivisioni che accolgono tutto e tutti, e qui in questo sgangherato condomino, tutti sono fratelli di tutti.

Silvio Orlando, quasi piange, ha gli occhi umidi e la voce rotta dalla emozione quando nel finale parla dell’amore, qualsiasi esso sia, verso una persona, un ideale, un sogno, che da senso allo scorrere dei giorni. L’amore quello vero, nasce dal cuore, ci fa vibrare fino a condividere la morte con la persona amata che ci ha amato senza riserve. L’amore supera le barriere ci rende “sorelli”, oltre ogni religione, razza o sesso. L’amore è, dice Momò nel finale, volersi bene.

Claudio Caldarelli