Egemonia culturale e lingua italiana

Karl Marx scrive che le idee dominanti in una società sono le idee della classe dominante. Le idee, però, sono inseparabili dalle parole, dalla lingua scritta, parlata e pensata. Le idee dominanti sono dunque anche quelle espresse nella lingua dominante. E qual è la lingua dominante sull’intero pianeta, almeno dalla metà un secolo scorso? L’inglese, l’angloamericano, indubbiamente. Non solo e non tanto perché al 2023 è la lingua più usata, con circa 1,34 miliardi di parlanti in giro per tutto il mondo, tra cui solo 460 milioni di madrelingua. La seconda lingua è il cinese mandarino, con un 1,12 miliardi di parlanti, tra cui 909 milioni di madrelingua. Ossia, il numero dei madrelingua del cinese è quasi il doppio di quello dell’angloamericano. Si potrebbe esclamare: “È la geografia linguistico- coloniale, bellezza!”. Dominio coloniale diretto, prima, da parte dello United Kingdom inglese, indiretto ma addirittura più penetrante, poi, da parte dell’imperialismo statunitense.

La differenza tra mandarino cinese e angloamericano (a favore di quest’ultimo) di 228 milioni di parlanti complessivi nel mondo, però, non rende ancora bene l’abisso molto più molto consistente tra l’influenza delle due lingue sulle nostro presente. Nonostante la potente crescita dell’economia cinese, destinata a superare quella americana nel 2028, l’angloamericano continua a dominare nei campi ancora e sempre più dominanti: scienza, tecnologia, economia. Anche nell’arte, però, resta egemonico. Lo stesso impero del dragone giallo non può prescindere da tale dominio, ed è costretto all’uso dell’inglese nelle sue espressioni internazionali. Le nuove frontiere tecno-informatico-elettroniche – quali il Metaverso – hanno già sversato sull’intero pianeta una massa di parole angloamericane e di concetti a esse inscindibilmente saldati, scarsamente traducibili in altre lingue. O traducibili solo attraverso il ricorso a espressioni artificiose, non sintetiche, le quali non farebbero che accentuare la sottomissione mentale all’inglese.

L’italiano è attualmente usato da circa 65 milioni di parlanti madrelingua, i quali – oltre a essere naturalmente concentrati in Italia – sono sparsi in ben 26 paesi in giro per il pianeta. Occupa il ventiduesimo posto della classifica mondiale dei madrelingua. Arriva a un totale di circa 68 milioni di parlanti nel mondo, scendendo al ventinovesimo posto delle lingue internazionali più usate. Per la sua presenza in quel numero così elevato di paesi, però, è la più studiata dopo inglese, spagnolo, cinese, e prima del francese. Dicevamo sopra che la disparità schiacciante tra inglese e cinese non è tanto quantitativa, ma soprattutto qualitativa. Quantità e qualità diventano addirittura massicciamente soverchianti per quanto riguarda la differenza tra inglese e italiano, riguardo a tecnoscienza ed economia. Non a caso in diverse facoltà universitarie pubbliche, soprattutto in quelle tecniche a Milano e Torino, i corsi, i laboratori e gli esami si svolgono ormai da anni esclusivamente in lingua inglese. Proprio per dare agli studenti una reale possibilità di accesso alle ricerche e a sbocchi operativi internazionali.

Vi sono una ventina di Stati nel mondo che hanno la difesa della propria lingua nella Costituzione. Tra questi una metà sono nell’Unione Europea, ad esempio la Francia. Ma non l’Italia, per diverse ragioni storiche. In ogni caso, tale inserimento nella Costituzione ha forse in qualche modo attenuato la penetrazione in quei paesi dell’inglese? Esso rimane la lingua più insegnata nelle scuole europee, con circa il 98% nelle preferenze di scelta di studenti e famiglie. Ai fini della difesa della purezza della lingua, divieti e sanzioni contro singoli e amministrazioni mostrano un che di vano e retrogrado insieme. Nessun moderno ente pubblico o privato, infatti, può prescindere dalla struttura sia tecno-scientifica, sia tecno-linguistica della sua operatività. Essa gira, si esprime attraverso una anglo-gergalità informatica, arduamente traducibile. Quando dal più alto dirigente, al più infimo impiegato devono possedere intimamente tale info-gergo, non si può certo impedire che esso debordi dal recinto lavorativo, contaminando il comune linguaggio quotidiano. Non decreti, multe e divieti, ma solo l’arte è in grado non di cancellare, ma di dislocare tali contaminazioni in vivezza più autentica, nuova purezza della lingua italiana.

Risale ad Antonio Gramsci la definizione del concetto di egemonia culturale. Essa è la formazione concreta, già nel contrasto alla egemonica cultura borgese-capitalistica, non tanto del potere, quanto della capacità di direzione intellettuale e morale della nuova classe. Ossia, il consenso deve precedere l’affermazione del potere politico, pena l’inevitabile snaturamento di quest’ultimo. A distanza di un secolo, la destra attualmente al governo convoca i suoi stati generali per formulare un proprio progetto di egemonia culturale. Progetto che è venuto, tra l’altro, legandosi a quello della difesa della lingua. Sui valori cardine di Dio, Patria, Famiglia, la destra deve rinserrare l’immaginario italiano, per costituire sia la frontiera interna rispetto alle migrazioni, sia quella esterna, soprattutto verso la Ue. Un’Europa, dunque, non politicamente unitaria, ma delle Nazioni. Ognuna delle quali nazioni si configura singolarmente sulle proprie sovrane peculiarità politiche, culturali, linguistiche, e su tali basi si confronta e stabilisce accordi con le altre. La nuova maggioranza centrale europea è un’alleanza di Stati con dottrine simili.

Ciò lascia perfettamente immutata l’egemonia culturale, linguistica del reale dominio planetario: quello tecno-economico capitalistico globale. Sulla dimensione locale, invece, regimi di emergenza permanente, rigido controllo post-democratico e neo-autoritario su ogni aspetto dalla sfera sociale, a quella civile, ambientale e personale.

Riccardo Tavani