Rapito: anche il pubblico lo resta
Avevano messo in progetto di girarlo diversi prestigiosi registi internazionali. Tra essi Julian Schnabel e Steven Spielberg. D’altronde in America, oltre alcuni libri, anche la televisione, tra il 2002 e il 2006, se n’era occupata con uno sceneggiato e una serie di documentari. A Spielberg, invece, hanno poi inviato una copia del film realizzato dal più giovane regista italiano in attività: l’ottantaquattrenne Marco Bellocchio. Il titolo del film è Rapito,ed è tratto dal libro di Daniele Scalise Il caso Mortara. Racconta la vicenda realmente accaduta nel 1858 a Edgardo Mortara, un bambino ebreo bolognese di sei anni. La santa inquisizione della città toglie Edgardo alla sua famiglia e lo manda a Roma, direttamente in Vaticano, dall’allora Papa Re Pio IX, al secolo Giovanni Maria Mastai-Ferretti. Pretesto: ancora in fasce il bambino sarebbe stato segretamente battezzato da una domestica. Secondo il diritto canonico, dunque, doveva essere educato secondo la religione cristiana.
A essere rapito, però, è anche il pubblico: per la sorpresa e la potenza del racconto e delle immagini. Una potenza collettiva, perché il cast è entrato in profonda sintonia con il regista, facendosi spinta interiore, e non solo superficie d’immagine esteriore dell’opera.
Questo aspetto emana particolarmente dalla prova d’attore di Paolo Pierobon, nei panni del Pontefice Pio IX. Non si tratta, però, solo di indubbio virtuosismo interpretativo. No, siamo alla sensibilissima capacità di com-prendere, di prendere l’opera da dentro, mettendo al suo servizio la propria intelligenza corporea e interpretativa. Soprattutto impersonando l’impersonale, ossia l’elemento che trascende, va oltre la storicità della vicenda narrata, connotandosi come attualità universale del Potere in quanto tale
L’interpretazione di Paolo Pierobon si configura dunque come un cruciale contenuto stratificato lungo la forma artistica di tutto il film. Il potere impersonato da un regnante, o da un insieme istituzionalizzato di regnanti, governanti di schiacciare e ridurre a sé spirito e corpo, parola e pensiero, tanto di una singola persona, quanto di una comunità, di una nazione, di un’intera civiltà. E quanto più reiterata e crudele si manifesta l’ingiunzione alla sottomissione, tanto più abissalmente tale riduzione s’installa nell’inconscio quale oggettiva, ineluttabile sostanza di realtà e lealtà.
Tale potere è tutt’ora in atto, anzi, forse proprio ora lo è di più. E lo è anche in noi, mentre siamo davanti allo specchio del film che in grande forma d’arte ce lo sta svelando.
Riccardo Tavani