Cine-pillole di mezz’estate

Selezione di undici film distribuiti a giugno 2021 soprattutto in sala e qualcuno in web.

Sull’infinitezza. Essenze e astrazioni per inquadrature fisse. Il regista svedese Roy Andersson continua la sua riduzione del cinema a pure essenze d’immagini e parole. Inquadrature fisse come veri e propri quadri d’una esposizioni dentro i quali si affacciano personaggi e loro quotidiani accadimenti infinitamente stralunati. Perché è l’essenza dell’intera umanità a essere mostrata nella sua infinita essenza. Infinita nel senso di senza limiti, ma anche di non terminata, non finita,. Proprio come illimitata è la capacità immaginativa di questo artista di vedere, pensare i suoi scarnificati cine-quadri esistenziali. Dopo sette anni il piccione pesatore di Andersson torna a posarsi sulla criniera del – Leone d’Oro al Festival di Venezia 2021, quale Migliore Regia.

Gloria Mundi. Dramma sociale familiare un po’ tirato. Il regista francese Robert Guédiguain dice di essersi ispirato a una frase di Karl Marx, ma questo non è sufficiente di per sé a garantire il valore cinematografico di un’opera a sfondo sociale. La Gloria del titolo è il nome dato alla figlia appena nata a una coppia di precari, sempre in bilico di sostentamento economico. La sorella della neo mamma, invece, è fidanzata con un commerciante e – pienamente  d’amore e d’accordo con questi – sfrutta cinicamente le necessità dei propri dipendenti e della povera gente. Quelli come sua sorella e cognato, appunto. La nonna fa massacranti turni di notte per guadagnare di più. Il nonno è autista di bus pubblici. Il vero nonno materno di Gloria, però, non è quest’ultimo, ma un detenuto condannato per omicidio. Avendo scontato già un bel fracco di anni, esce per unirsi a figlia e nipote. In carcere ha imparato a scrivere haiku, le poesie in appena tre versi dei giapponesi. Ma il quadro familiare non è affatto ricomposto, anzi. Sulla scia della frase marxiana che dove vige la borghesia “tutti i nostri sogni annegano nelle gelide acque del calcolo egoistico”, la vicenda su sviluppa in un crescendo di svolte drammatiche e anche di abiezioni personali (queste quasi tutte della parte femminile). Fino a un finale da tragedia proletaria ottocentesca.

I predatori. Originale commedia a sfondo fascio-coatto e grottesco-filosofico. Pietro Castellitto, figlio d’arte di Sergio e Margaret Mazzantini, esordisce come regista nel lungometraggio, e lo fa ubbidendo alla regola principe del mercato italiano: per un minimo di successo garantito si buttati sempre sulla commedia. La vicenda di una famiglia borghese (madre regista di cinema, padre medico patologo) s’intreccia con quella di una famiglia coatta e fascista titolare di un’armeria. Il trait d’union è Federico (interpretato dallo stesso autore), universitario col pallino di Nietzsche, che si rivolge ai fascio-armieri per comprare una bomba. Buone idee e qualità, anche se a volte un po’ fini solo a sé stesse e non a una migliore tessitura del film. Si spera di vederlo misurarsi anche con un dramma d’arte. Miglior Regista Esordiente, David di Donatello. Migliore sceneggiatura, Premio Orizzonti, Festival di Venezia 2020. (Se non più in sala, su Chili).

The disciple. Inconsueta e mirabile opera sulla musica indiana.  Fin da ragazzino Shaman assorbe da suo padre la passione per la tradizione musicale indostana. Da grande cerca di diventarne un virtuoso, ma qualcosa dentro di lui lo ostacola, nonostante sia il discepolo di uno dei più apprezzati maestri ed esecutori ancora viventi. Ascolta anche le registrazioni delle lezioni lasciate da un’altra venerata maestra ormai scomparsa. La ricerca profonda dell’arte non è mai soltanto limitata all’apprendimento delle tecniche musicali e vocali. Inesorabilmente conduce sempre a una ricerca della verità, della giustizia dentro di sé e nel mondo. La frontiera tormentata di tale autenticità mette continuamente Shaman di fronte al suo passato, al suo presente, ma soprattutto davanti alla decisione da prendere per il suo futuro. Se per incapacità di perfezione abbandonerà quello che è stato per lui il senso stesso della sua esistenza, cosa gli rimarrà? (Su Netflix).

Hong Kong Express. Il ritorno di un cult orientale. Sono ormai tre i film restaurati e rimessi in sala del celebrato regista hongkonghese Wong Kar-wai. In the mood for love, del 2000, Happy together, del 1997, e questo Hong Kong Express, del 1994. A parte il secondo, girato quasi completamente a Buenos Aires, è però Hong Kong la città nel sangue, nel cervello, nella pelle e nelle pellicole dell’autore. Gira questo film in maniera rapida, frenetica, mentre ne sta girando un altro. Scrive la sceneggiatura mentre lo realizza. Gira una scena, poi, in base a questa scrive quella successiva, e così via. Immagina due poliziotti, il primo in borghese, il secondo in divisa e ne fa due storie separate, una di fila all’altra. Filo conduttore: due sbirri senza una donna, senza l’amore. Tutte e due, inoltre, che vanno a mangiare nella stessa tavola calda del grande mercato cittadino. Qui incrociano, inseguono, smarriscono, rincontrano sotto diverse sembianze le loro femme fatale. Fascino maledetto e fuorilegge nel primo episodio, pungente commedia sentimentale il secondo. In entrambi una lezione di stile.

Il futuro siamo noi. Doc sui ragazzini che salvano il mondo. Dopo Malala e Greta si abbassa sempre di più l’età dell’impegno civile e ambientale. In vari parti del mondo ci sono della bambine e dei bambini che – ancora prima di toccare la soglia dell’adolescenza –  hanno già idee per risolvere certi drammatici problemi e ingiustizie che affliggono il mondo intorno a loro. Come Aissatou che in Guinea è riuscita a coinvolgere altre sue coetanee in una campagna pubblica contro la violenza dei matrimoni imposti alle minorenni dalle loro famiglie. Anche contro il lavoro minorile in India, Heena coinvolge i bambini sfruttati a partecipare alle redazione di un giornale stampato e diffuso nelle strade, nei mercati, nei luoghi di lavoro. che ne denuncia lo sfruttamento, cercando anche di sottrarli ai loro aguzzini. In Bolivia, sullo stesso problema, si è dato vita a un sindacato di bambini e adolescenti che sciopera e manifesta in piazza, rivendicando il proprio diritto a non essere calpestati. A sette anni, in Perù, Josè ha cominciato a raccogliere e riciclare carta usata per devolvere il ricavato ai bambini bisognosi. Qualche anno dopo ha avuto l’idea di cerare una carta di credito per tutti i suoi coetanei che riciclassero una quantità minima di carta, potendosi aprire così un conto, continuare ad alimentarlo, ed accedere anche a un micro credito. Il film risente forse di un tono un po’ troppo istituzionale che toglie spontaneità, drammaticità alle situazioni e ai piccoli personaggi fatti conoscere. Il pregio, però, è quello di mostrarci come un bambino vada considerato a tutti gli effetti quale persona.

Extraliscio – Punk da balera. Esaltante nascita di una stella supernova da una eclissata. Elisabetta Sgarbi non fallisce neanche questo nuovo, stravagante ma significativo cine-colpo, messo a segno in era spaziale ante-pandemica. La band del titolo è ormai conosciuta da molti, anche per la sua partecipazione sanremese, ma pochi ne conoscono la nascita nel plasma di nebbia, sax e balli folk della Romagna casadeiana. A tale nascita Ermanno Ragazzoni dona una voce e un’impassibilità facciale extragalattica che sono un riverbero, un’eco perduta d’altri tempi proveniente dal futuro remoto. Moreno Conficconi, il Biondo clarinettista di Raul Casadei, incontra Mirco Mariani, pluristrumentista elettro-accroccatore: non fa in tempo a nascere un duo che è già una band, una neo-leggenda. Godibile e significativo oltre la gravitazione terrestre.

Estate ’85. Da iniziale romanzo di formazione erotica a sformato carbonizzato sullo schermo. Tra Alex e David esplode l’eros gay quando si conoscono in una località balneare della Normandia. Verso la metà della vicenda, però, a esplodere, andare in pezzi è proprio l’intero film. François Ozon, pur apprezzato regista in passato, fa qui morire – con un semplice schiocco di dita narrativo – uno dei due protagonisti e subito entriamo nel melodrammatico grottesco, con scene del tutto gratuite, difficilmente credibili e giustificabili. Altrettanto gratuitamente, inoltre, i personaggi si accendono continuamente sigarette. Gratuitamente dal punto di vista del racconto. Non certo del budget. Lo abbiamo già scritto: dopo anni di astensione, le multinazionali del tabacco sono tornate alla grande sugli schermi. Tratto dal romanzo Danza sulla mia tomba, di Aidan Chambers.

Punta Sacra. Una lancia di cinema reale nel costato dell’Idroscalo. Un film documentario mirabile che ci fa conoscere un fazzoletto liminare di terra e umanità inzuppato dal mare e detriti, intriso di salsedine e  desolazione tra il Porto Turistico di Ostia e Fiumicino. La battaglia di una comunità resistente guidata da donne guerriere, cui nel 2010 l’allora sindaco di Roma Gianni Alemanno sgombera, demolisce case e futuro. Tra esse Nadia, con la sua maglietta del Che e i suoi valori sociali, la sua tenacia nella lotta, nei riti delle feste, delle recite, dei balli per i regazzini. E il giovane rapper d’origine cilena Chicky Realeza, dalla poesia e il canto che gli discendono Victor Jara. E i ragazzi, le ragazze soprattutto, tra le speranze e le illusioni di lì fuori. Pier Pasolini è presente non solo perché il suo corpo massacrato fu trascinato, scaraventato lì, ma per il legame cinematografico e narrativo con suoi primi romanzi e film. Sacro,  originariamente, è lo spazio, il recinto separato dal profano, e la regista Francesca Mazzoleni ce lo mostra con inquadrature e movimenti della macchina da presa tanto essenziali quanto mirabili. Premio Valentina Pedicini ai Nastri d’Argento 2021, quale Miglior Doc. Alice nella città, Roma Film Festival 2020, Premio Speciale della Giuria.

Valley of the Gods. Grandioso, visionario, stracarico d’arte, pittura e ancestralità. Tre storie intrecciate insieme dentro dieci capitoli cine-narrativi. La vicenda dell’uomo più ricco del mondo ossessionato dalla morte della moglie e della figlia; quella degli indiani Navajos, cui quell’uomo vuole profanare per interessi economici la loro valle sacra; quella di uno scrittore abbandonato dalla moglie che si ritrova a scrivere in quella valle. Qualcuno dice carico eccessivamente. Forse, però, è cinema superiore. Il polacco Lech Majewiski è d’altronde qui produttore, regista, sceneggiatore, direttore della fotografia, montatore, musicista, e forse anche altro. Tutte cose che lui esercita nella vita reale. I droni e l’elettronica, poi, gli hanno permesso di passare dal suo scrittoio, anzi immaginatoio, a scene vertiginose dei canyon californiani in panoramica rotante dall’alto, di una Fontana de’ Trevi operistica oltre Fellini, di saloni rinascimentali attrezzati e usati quali a campi da tennis. Girato tra Italia, Polonia, Usa.

Sogni di Grande Nord. Imperdibile dono al cinema italiano. Un’opera, un’impresa che è insieme cinema, letteratura, pensiero viaggiante e faccia a faccia personale con il senso stesso dell’esistenza. La firmano lo scrittore Paolo Cognetti, il regista Dario Acocella, lo sceneggiatore Francesco Favale. Un progetto meticolosamente elaborato, studiato nei minimi dettagli geografici e tecnici, per le difficoltà logistiche, ma anche di resa artistica della densa materia che mette in gioco. Attraversando la frontiera selvaggia, rocciosa, gelata tra Canada e Alaska, la meta da raggiungere è il Magic Bus. Quellodella scena finale del film di Sean Penn Into the wild, che racconta la vicenda e la morte in quel luogo dello scrittore Christopher McCandless. Lo scrittore, il suo compagno di viaggio e il regista sono stati gli ultimi a entrare in quel mitico relitto di bus e a filmarlo, prima che venisse rimosso dal governo canadese  per motivi di sicurezza.

di Riccardo Tavani

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