Il cinema, l’immortale
L’ultimo film di Daniele Vicari è Orlando, con un’interpretazione di Michele Placido che è senz’altro una stella fulgente nella costellazione della sua carriera d’attore. La Bruxelles fotografata nel film è quella straniante vista con gli occhi di un vecchio sabino che non si è mai allontanato dal suo borgo. Taciturno e ostico, si reca nella capitale belga per incontrare una nipote adolescente mai conosciuta prima. Il film riceve ancora premi e si trova in diversi cinema italiani, ma è anche in home video.
Un’opera che si stacca anche da quelle precedenti dello stesso autore? Sì, con l’avvertenza, però, che tutti i precedenti film di Vicari si presentano quale novità rispetto già solo a quello immediatamente precedente. Basta mettere in fila almeno i più noti: Il passato è una terra straniera, 2008, La nave dolce, 2012, Diaz, 2012, Sole cuore amore, 2016, Prima che la notte, 2018. Astri anche remoti tra loro, ma configurabili nella medesima costellazione cinematografica per una inconfondibile luce di lucido impeto artistico e civile.
Vicari, però, del cinema non è solo un regista in azione, lo è anche nella teoria. D’altronde, subito dopo la laurea in Storia e Critica del Cinema, prima di arrivare ai suoi lavori d’esordio, inizia a collaborare a diverse riviste, esercitando la sua facoltà di giudizio, il suo sguardo teorico, oltre che una capacità di scrittura sinteticamente chiara e profonda. Di questo ne è prova Emanuele nella battaglia, il suo libro del 2019 sul massacro di gruppo subito ad Alatri dal giovane Emanuele Morganti.
Il cinema, l’immortale, edito da Einaudi, è un agile ma cruciale testo sullo stato attuale della settima arte. Tra il suo passato glorioso e il suo futuro di morte o resurrezione, il cinema è oggi sospeso sulla faglia epocale spalancatasi tra la vecchia tecnologia in pellicola e quella furiosamente in divenire del digitale. Tecnologie che sono anche sistemi di produzione, distribuzione, fruizione. Tanto che forse dovremmo parlare di cinema come ottava arte. Non più soltanto architettura, musica, pittura, scultura, poesia, danza, più il cinema, come settima arte della fotografia in movimento. A queste sette dovremmo forse aggiungere il digitale stesso, come arte in sé, ossia capace di auto generare e connettere non più semplicemente immagini e suoni, ma interi stadi audio-visivi in movimento evolutivo.
Ancora prima del più massivo riversamento anche nel cinema di Intelligenza Artificiale e Metaverso, Vicari ci mostra che già ora i problemi sono complessi, e temeraria si presenta la sfida all’Ok Corral dell’immortalità cinematografica. Temeraria, ma proprio per questo da affrontare a strumenti tecnici e poetici aperti. Se le sale cinematografiche erano i principali luoghi di diffusione-fruizione del cinema, oggi lo sono le piattaforme. Il biennio pandemico ha solo reso più esplicita una ben radicata tendenza in atto. La sale proiettano film, pezzi unici, racconti con un inizio, una fine e una durata da un’ora e mezza a massimo un quattro ore. C’è un regista unico, anche quando è una coppia, dato che questa forma comunque una unità creativa. E anche due, tre o più sceneggiatori, scrittori di copioni, ma anche questi ricondotti dal regista all’unicità di racconto. Il regista sussume sotto di sé e garantisce l’unità filmico-narrativa.
Le piattaforme, invece, mandano soprattutto serie televisive, racconti che durano intere stagioni annuali. I registi e gli sceneggiatori sono plurimi, cambiano non solo tra una stagione e l’altra, ma anche all’interno della medesima stagione. A imbastire il tessuto connettivo dei diversi episodi non è più un regista-autore, ma una figura tecnico-produttiva e manageriale. Scrive Vicari: “una nuova figura super-potente, che si chiama showrunner, e che crea, decide, organizza e dirige l’opera”.
Piattaforma, spiega poi l’autore, significa anche forma piatta, appiattimento mediano dei gusti del pubblico, ottenuto dagli algoritmi che capillarmente scrutano e registrano algebricamente tutti i nostri click, le nostre visualizzazioni, le nostre connessioni e preferenze. Piatto, in sé negazione, è negazione di altezza, vertice, vertigine d’arte. Ed è proprio qui la sfida! Anche nella sua era più epica gli intrinseci meccanismi produttivi del cinema non garantivano più di tanto allo spazio d’arte. Il fine era sempre il profitto capitalistico e la sua incessante massimizzazione. Non solo, ma chi vendeva la particolarissima merce cinema, in essa voleva incapsulare anche la propria ideologia. Il gusto del pubblico, dunque, si cercava già allora di appiattirlo ideologicamente. Questo non ha impedito, anzi ha incentivato, stimolato, ingegnato gli artisti a oltrepassare quei limiti. Spesso, infatti, l’arte si avvale proprio di limiti, misure. Inoltre – sostiene Daniele Vicari – l’intero processo innescato dalla tecnologia digitale non si può più in nessuna maniera fermare, proprio perché immanentemente immane. Così a spingerci a farci i conti è la stessa necessità, ossia il non cessare dell’arte a tendere verso la sue precipue forme d’espressione in ogni situazione e con ogni mezzo.
Veloce, sintetico, godibile Il cinema, l’immortale, in poco più di cento pagine, è uno slancio soprattutto verso i giovani, i cosiddetti nativi digitali, un chiamata a entrare, a mettersi in scena, perché proprio in questa situazione di critica faglia epocale, esistenziale, ambientale c’è bisogno in primo luogo d’arte, ancora prima che di politica, per rimettere il mondo sui cardini, ritrovargli un senso e un discorso possibile.
Riccardo Tavani