La famosa invasione dei cinesi in Calabria

La cittadina di Paola, in provincia di Cosenza, è un cruciale snodo ferroviario del Meridione. Non a caso i ferrovieri ne hanno segnato la storia sociale e politica del 900‘. Ma a Paola ci sono arrivati allora con i treni i cinesi? No, già c’erano, fin da bambini, da adolescenti, ma crescevano senza sapere di esserlo. Da studenti, infatti, erano perlopiù iscritti all’Azione Cattolica. La loro, però, era solo una lunga marcia. Staccarsi dalla tradizionale marca della Democristiana Cristiana calabra sembrava allora quasi impossibile.

Ancora sui banchi delle medie superiori, o già all’Università tra Bari, Napoli, Roma e anche più su, però, arriva loro il vento impetuoso della Rivoluzione Culturale, lanciata nel 1966 dal Presidente  cinese Mao Tse-Tung al grido di “Bombardare il Quartier Generale”.

Un vento che non arriva da solo, ma insieme a tutto l’otre politico scoppiato tra le mani di Eolo. La rivolta studentesca dilagata in America, in Europa, in tutto il mondo. Seguita da quelle per la liberazione sessuale e i diritti delle donne. Il contagio trasmesso alle fabbriche e ai quartieri operai. E in Italia, subito dopo,  la violenta bora della reazione che infuria a suon di bombe,  stragi, mattanze di Stato seminate da sevizi segreti e manovalanza fascista. A raccontarci la Calabro-Cina è un ragazzo degli anni 70‘ proprio di Paola, Alfonso Perrotta. Lo fa attraverso il suo libro Maoisti in Calabria, edito da Etabeta. È una ricostruzione storicamente molto rigorosa, con un meticoloso apparato bibliografico, e testimonianze anche personali, essendo stato l’autore un protagonista di quella vicenda.

Sono ormai diversi i volumi di storia meridionale scritti da Alfonso Perrotta, insieme a quelli sui migranti. L’epicentro è sempre la città di Paola. È come se lui prendesse quel famoso treno che all’incontrario va: dal presente, da Roma dove da anni vive, alla sua inseparabile e ancora attivissima origine. Torna a scendere alla stazione di Paola, ma solo per indossare i panni di uno di quei tanti ferrovieri che ne hanno segnato la storia. Rimettersi sul locomotore, o ai piedi di un vagone con fischietto e segnalatore di partenza. A bordo del convoglio ci sono le vicende, le facce, i nomi, le statistiche, gli archivi, i decreti, i ritagli di giornale, i volantini, i rapporti di polizia che dagli inizi del 900‘ risalgono fino ai giorni nostri, e da Paola a tutta la Calabria, il Meridione, l’Italia intera.

Da Antonio Eboli. Autobiografia di un socialista calabrese, a L’umano divenire. Cronache paolane del Novecento e la Bandiera Rossa dell’avvocato De Luca; a Paola 1943. Storia e memoria dei bombardamenti, Alfonso Perrotta sta colmando un vuoto negli studi storiografici meridionalisti. Non solo. Riconnettendo infatti tutti i tasselli della sua ricerca all’intera vicenda nazionale, ecco che contribuisce a una più completa e dunque corretta lettura del quadro storico generale.

Parafrasando il titolo del racconto del 1945 di Dino Buzzati La famosa invasione degli orsi in Sicilia, si potrebbe dire che quella dei cinesi in Calabria fu guidata da un altro illustre paolano, l’avvocato Enzo Lo Giudice, classe 1934. Dirigente locale del Partito Socialista di Unità Proletaria (Psiup), Lo Giudice, però, fu prima di tutto lui stesso a essere travolto dai più giovani maoisti paolani, che in poco tempo lo portarono a dimettersi dal suo partito e a fondare l’Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti). Fondazione che ha luogo il 4 ottobre 1968 in Via Panisperna a Roma. Presenti delegazioni da Milano, Bergamo, Palermo, Catania, Roma, e di Vibo Valenzia, Crotone, Castrovillari dalla Calabria. Oltre quella di Paola, naturalmente, composta da Claudio Fayer, lo stesso Alfonso Perrotta ed Enzo Lo Giudice, eletto poi nella direzione nazionale. Più tardi fu fondato anche il giornale Servire il Popolo, nome con il quale fu poi comunemente chiamato l’intero partito. Aldo Brandirali, al di là delle cariche ufficiali, fu da allora e fino al suo scioglimento nel 1978, il leader di spicco della nuova formazione.

Di questi dieci anni Alfonso Perrotta fa un rigoroso resoconto storiografico, alimentato anche da documenti del suo archivio personale, che al contempo è anche uno sguardo da dentro, la restituzione di un quadro vivido della passione e della spinta politica di cui furono protagonisti consistenti e diversificati strati sociali. E Servire il Popolo, al di là del sarcasmo, con il quale sono tramandate alcune sue vicende, doviziosamente elencate dallo stesso autore, ha davvero coagulato nel nostro Meridione un significativo slancio di riscatto sociale e seguito di massa. Perrotta ricorda che numerosi furono gli intellettuali e gli artisti, in erba o già allora affermati, o che lo furono in seguito, ancora oggi famosi che andarono proprio in Calabria per mettersi al servizio del popolo. Essi parteciparono alle lotte, misero in gioco intelligenze, energie, convinzioni radicali, donando soldi, opere d’arte, realizzando film. Marco Bellocchio ancora oggi, in alcune occasioni pubbliche e interviste, ricorda il suo documentario in 16 mm Il popolo calabrese ha rialzato la testa, girato tra Paola e Cetraro. Un documento che si può ancora rintracciare in rete intero o in ampi stralci. Ascoltiamo sì un tono scopertamente di propaganda, ma nelle interviste, nelle inquadrature, nei movimenti della macchina da presa e nel montaggio vediamo anche già la mano del futuro maestro di cinema.

Dallo stesso rigore documentale e vividezza d’analisi politica, Perrotta non demorde nemmeno nello squadernare le cause del declino e del totale sfaldamento di quella esperienza. E con esso il disconoscimento, il ripudio, il dileggio, la denigrazione della propria militanza anche da parte di molti che vi hanno partecipato. L’autore non si tira indietro neanche nel faccia a faccia con sé stesso. E come Marco Bellocchio, che pur riconoscendo di quel suo film i limiti d’epoca, non lo disconosce affatto, così fa Alfonso Perrotta, non ripudiando la propria immagine dentro quello che è stato un pezzo di pellicola esistenziale rimasto ben impresso nella sua coscienza e memoria.

“Ciò che si ricorda non è stato inutile” è intitolato l’ultimo capitolo del libro. Cosa non si dimentica? Il dolore, la sofferenza, soprattutto se sullo sfondo della grande gioia che quegli anni sono anche stati per molti. Ed è proprio da un simile indistinto ma autentico caos esperienziale che si è sedimentata anche la figura cristallina dell’attivista politico senza partito e senza confini, e del ricercatore storico che oggi tanti riconoscono in Alfonso Perrotta.

Riccardo Tavani

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