Il quinto vuoto

Cosa s’intende per Quarto vuoto? Dopo le tripartizione in terra, cielo e mare, la quarta parte è la più grande estensione di sabbia desertica al mondo. In arabo si dice Rubʿ al-Khālī. Mille chilometri di lunghezza, cinquecento di larghezza, una superficie di 650.000 Kmq – in gran parte inesplorata – all’estremo sud della Penisola Araba. Come si può allora immaginare Il quinto vuoto, tanto da farne il titolo di un libro? Esiste davvero tale quinta parte del mondo ancora più vuota della quarta? E dove è fisicamente collocato tanto nulla sabbioso o assente totalità? E chi si spinge, si inoltra, e perché al di là dei suoi disorientanti confini? Lo racconta Gianni Perrelli nel suo ultimo romanzo per Di Renzo Editore (215 pag. 15€).

A immaginare, vedere, una tale nascosta dimensione e a rappresentarla su una tela con linee e colori non poteva che essere un pittore. La rappresenta in un suo quadro: Il quinto vuoto. Così che il pittore si espone, si mette in mostra in una galleria di quadri geografici ed esistenziali, quale narratore della sua messinscena letteraria. A Giulio Lucchini, artista di fama mondiale, infatti, non basta averlo dipinto quel quadro. Ananke, la dea Necessità, come la chiamano gli antichi greci, lo spinge, costringe. Ne-cessità – ossia che non cessa, non può cessare di manifestare la propria inderogabilità – lo obbliga a farsi esploratore, a incontrare terre e anime, a percorrere, ripercorrere in lungo, in largo, dentro e fuori di sé il pianeta, per tentare di riempire o dare un senso finale all’amore, alla morte, alle opere e i giorni, all’esistenza intera. Lo fa rincontrando le persone e le situazioni che hanno determinato la sostanza più profonda della sua vita. Luoghi e volti che sono state occasioni, possibilità, reciprocità di scambi, equivoci, crudeltà, negazioni: come a dover chiudere, saldare tutti i conti in sospeso e le fessure rimaste ancora aperte. Per il tempo limitato che una incontrovertibile diagnosi clinica gli concede ancora da vivere. Il tempo sufficiente appena a chiudere cassetti e porte e lasciate aperti in giro per il mondo.

Gianni Perrelli riprende e rinnova lungo questo ultimo romanzo temi e situazioni già enucleati nella sua opera precedente. Soprattutto nel suo denso, penetrante Non avrai altro dio (2009). L’essere stretto, costretto, senza alcuna possibilità di via d’uscita, nel faccia a faccia con la propria morte. Per malattia terminale o condanna capitale. Morte, però, che già ha scavato da tempo la sua galleria di infiltrazione interiore a seguito della tragica, mai superata perdita di un unico grande amore terreno concesso e poi spietatamente strappato dalla vita stessa. Il proprio essere per la morte, per dirla con Heidegger, con il contraltare della scoperta, dell’agnizione di un figlio mai prima conosciuto, come già ne Il tunnel (2012). E senza mai risparmiarsi di oscillare su un orlo di tragica follia, come vertiginosamente esperito in 16 metri quadri(2014).

Giornalista, inviato, corrispondente estero di lungo corso, Gianni Perrelli non rinuncia a toccare aspetti sociali, politici, culturali della contemporaneità. Lo fa attraverso una scrittura tesa alla sinteticità espressiva, anche – se per il tema profondamente esistenziale del racconto – possono forse apparire digressioni non del tutto cogenti tali entrature nel contingente. Tuttavia, non si interrompe mai il filo della tela d’Arianna che conduce Teseo-Giulio a non smarrirsi nel labirinto del suo itinerario esteriore-interiore. L’approdo ricercato, impresso già nel primo passo del viaggio resta quello del finis terrae, dell’estremo confine tra gloria e totalità assente, silente. Lasciata lontana anche la città di Ushuaia, nella Terra del Fuoco, Giulio è ormai alla frontiera con l’oltre, all’estremo sud dell’America Latina, dell’Argentina, della Patagonia, della Terra del Fuoco. Man mano che si dirada il paesaggio geografico, antropologico, verbale, si rarefà anche la scrittura letteraria dell’autore, caricandosi, però, proprio in virtù di questo, di eco inedite, provenienti dalla cavità del vuoto che si sospende davanti agli occhi, alla coscienza, alle immagini e percezioni postreme dell’artista. Può restituire la letteratura il dolore nostalgicamente commosso, persino meravigliato eppure lucido del suo sguardo? Solo mare e ghiaccio fuori e dentro di lui: un bianco, livido quinto vuoto. Pure adesso lo si può rappresentare solo in immagini tale vuoto, come in quel suo vecchio quadro? Olo si può rendere anche in parole bisbigliate a sé, interiormente monologate e poi scritte, proprio come fa l’autore alla fine ultima d’ogni ulteriore, possibile passo del viaggio di Giulio? E non è questo pur sempre un suono, un rumore, un grido, un farsi udire, ossia il senso racchiuso nell’etimologia stessa di ciò che chiamiamo gloria? E proprio su tale soglia ci conduce l’ultimo,intensamente scarno capitolo finale. Non solo nel senso della trama narrativa, ma più significativamente di quello dell’esistenzialmente dicibile. Perché come proprio la totalità silente è condizione d’ogni nostra singola parola, così lo è della gloria originaria il quinto vuoto.

Riccardo Tavani

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