La parabola dell’anguilla

Quando Alessandro magno si mette davanti a lui, Diogene di Sinope gli dice di scansarsi, perché gli sta coprendo il sole. Lui che vive all’ombra di una botte, eleggendola a suo pensatoio filosofico per indagare l’uomo. Luigi Irdi, invece, mette tra voi e il sole agostano il suo ultimo libro, La parabola dell’anguilla, edito da Nutrimenti. Essendo un giallo che corre sul filo di enigmi e suspense, potete, anzi dovete sostituire l’austera botte di Diogene con qualcosa di ancora più scarno come un ombrellone da spiaggia. O fronde di giardino, lago, campagna, rupi di montagna. Tanto vi accorgerete che la parabola irdiana sempre alla funzione di pensatoio filosofico, esistenziale riconduce ogni riparo estivo. Ma lo fa sulla lama affilata da maestria narrativa e letteraria. Narrativa per quanto riguarda il plot; letteraria per l’uso di una tersa lingua colloquiale quotidiana. Lingua capace, però, all’improvviso di virare verso riflessioni più profonde sul senso del nostro mondano e anche paradossale esserci.

Una suora molto particolare è trovata morta ammazzata dentro una discarica, con gli occhi divorati da stormi di gabbiani. A Sara Malerba, procuratrice di Torre Piccola, è imposta, più che affidata dal turno d’ufficio, l’indagine. Dove la trova, infatti, il procuratore capo Cantalamessa un’altra toga che se ne vada in giro in pieno giorno con la lanterna accesa del suo acume, proclamando come Diogene: “Io cerco l’uomo!”. Non nel senso dell’uomo originario indagato dall’antico filosofo greco, ma in quello della persona omicida. Solo che questa spesso si cela proprio dietro le originarie pulsioni del comune antropos. Qui è il trait d’union tra indagine giudiziaria e indagine filosofica. E Irdi è tra quegli autori più avvertiti che usano il genere letterario minore, quale il giallo è considerato, per fare emergere in filigrana una trama di pensiero maggiore. E siccome Sara Malerba riempie i suoi taccuini d’inchiesta di continui riferimenti e titoli cinematografici, è quasi d’obbligo citare Hitchcock. Lui è il grande maestro nell’uso del giallo per veicolare una particolare visione su mondo, peccato, colpa, dannazione, ardua redenzione. È di sua invenzione il termine McGuffin. È questo un oggetto, un documento, una lettera, un gioiello che non ha alcun altro scopo, funzione narrativa che infittire non la sostanza dell’intrigo in sé, ma la sua atmosfera d’ambiente. Un oggetto vuoto, un vero e proprio nonsense. E più è tale, più assolve il suo compito. Come le celebri “lettere di transito” trafugate in Casablanca. Un che di veramente burlesco. Servono per passare i posti di blocco nazisti e sono da questi accettate, ma recano la firma del generale De Gaulle, loro nemico giurato. Così che tutto il cinema hitchcockiano è un unico, grande McGuffin.

Suor Sofonisba, trovata morta nella discarica, è una religiosa particolare, perché è laureata in ingegneria idraulica. In tale veste ha dotato il convento di un moderno impianto d’irrigazione e fatto crescere un meraviglioso giardino di aranci. Ha ideato e messo in pratica anche un sistema di microcrediti per aiutare le persone più bisognose del luogo. Una prospiciente miniera, proprietà di un potentato locale, ha però sedimentato pesanti residui inquinanti sul territorio. Nel tentativo di risolvere anche questo problema, Sofonisba deve fare i conti con quei forti interessi proprietari. Questi le si presentano nelle vesti di una giovane ambiziosa biologa ambientale al loro servizio. Suore, convento, veleni: è la stessa procuratrice ad appuntarsi fin da subito sul taccuino un romanzo e un omonimo film: Il nome della rosa. L’indagine di Malerba si svolge in forma permanentemente dialogica, e dunque anche in questo precipuamente filosofica. Dialogo con il suo collaboratore più stretto, il Maresciallo dei Carabinieri ElvioBerardi. Con sua madre morta, che ogni sera l’aspetta quando rientra a casa. Lì trova il suo gatto Poker, fonte anch’esso di improvvise epifanie. E soprattutto: monologo interiore fitto, senza tregua, spesso micidiale, senza alcun riguardo per sé stessa. Salvo poi concedersi lenitivi in forma di rilassanti aperitivi.

Giornalista di lungo corso, cronista d’origine, Luigi Irdi non poteva evitare al suo personaggio l’impatto con l’attualità. Malerba, infatti, sta anche seguendo il caso di una donna che troppo tempo sta subendo i continui maltrattamenti che premurosamente le riserva il suo uomo: solo che non si decide a denunciarlo. Bel funambolismo tentare di salvare una donna sull’orlo di essere massacrata di botte, e rendere giustizia a una che è stata appena ammazzata.

A proposito di “suo personaggio l’autore ha dichiarato che se pure il nome di Sara Malerba è inventato, lei esiste davvero. Anonima, ma con corpo e anima reale. Seppure romanzate, le vicende narrate hanno solida base di corpus e prassi giudiziaria. Forse un giorno chissà… Intanto le sue avventure hanno già riempito una bella trilogia che l’editore ha raccolto in un unico cofanetto: Operazione Athena, Il nero sta bene su tutto, La metafora dell’anguilla. Totale: buona botte di Diogene o filosofico ombrellone che sia!

Riccardo Tavani

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