Il lotto 285 – capitolo cinquantasette

“L’odore nel Blocco 4(VI) era un odore diverso: non quello di totale putrefazione del prato e del luogo, né quello diffuso dalle ciminiere (di cartone misto a marciume bagnato, che tra l’altro, con i suoi miasmi ittici, ti ricordava come l’essere umano discenda dai pesci). No, era il contrito fetore della fame – gli acidi e i gas della digestione frustrata, più un sentore strisciante di urina.”

Martin Amis – La zona d’interesse

    La guerra era finita, l’esercito germanico sconfitto era in fuga, i fascisti rintanati o prigionieri o giustiziati non avevano scampo.

Ricordo che nella mia prima infanzia, a passeggio con i miei genitori, con i primi balbettii, pronunciavo continuamente la stessa domanda: E quetto cos’è?”, avendone sempre una risposta per me parziale ed insoddisfacente, perché la fantasia voleva sempre un’altra risposta alle mie curiosità passeggere, che coltivavo sempre di più per elaborare una richiesta finale, embrionale quanto si voglia, che però rimandava a un’altra richiesta, come in un gioco di scacchi per cui, per poter vincere, bisogna essere sempre avanti di cinque mosse.

   La semplicità con la quale quel bambino si poneva delle domande all’apparenza incongrue che la madre non prevedeva ma doveva assecondare, inventandosi una risposta il più plausibile possibile, dovendo usare lei stessa un linguaggio “bambinesco”, ma ingannevole per te e per lei, doveva essere disarmante perché spingeva quel bambino a inventarsi sempre un’altra richiesta altrettanto incongrua e a tenere impegnata quella povera genitrice.

   Nello scrivere queste memorie mi sono spesso trovato ad essere come quel bambino che la madre trascina via, forse per la fretta, o per la paura o semplicemente per capriccio.

   Fin dall’inizio mi ero trovato a che fare con qualcosa di incommensurabile, qualcosa che andava oltre le mie aspettative, e con cui ero stato io stesso costretto a fare i conti giorno dopo giorno. Un’ansia di ricerca di una scoperta imminente, un sogno ad occhi aperti che mi aveva condotto sempre  verso luoghi sconosciuti e di cui avevo la certezza che uno di questi sarebbe stato per forza essere quello vero, o per lo meno il più  accettabile dalla mia mente contorta. La ricerca del mio Graal, l’indefinibile Lotto 285. Avevo però abbandonato per un po’, con mia grande delusione,  quella ricerca, dedicandomi a qualcosa di più conoscibile che mi avrebbe fatto sperare in un’immediata identificazione con quello che cercavo: La Sapienza. Anche lì avevo stentato, pur scoprendo man mano degli indizi che mi avrebbero portato verso quella meta, a credere che una mia successiva dedizione alle discipline scientifiche sarebbe stata una mia completa realizzazione. Ma avevo avuto sempre la sensazione che quei risultati ottenuti nello studio e successivamente nella carriera universitaria fossero dovuti principalmente all’uso metodico della semplice forza d’inerzia, perché non ero e non sarei stato un ambizioso, mi sarebbe mancata una tale virtù della passione professionale, e, timoroso di deludere e pieno di scrupoli, nei primi tempi mi sarei sentito opprimere dall’idea che tutti si sarebbero attesi da me delle manifestazione di acume politico e organizzativo proporzionate al prestigio conquistato durante la guerra partigiana. Ero stato comunque orgoglioso di aver ricevuto, in seguito ben tre medaglie d’argento al valor militare.

   Erano i mesi del primo dopoguerra quando cominciavano a circolare voci sui campi d’internamento e di stermino che erano sorti, ancor  prima degli anni ’40, nei territori occupati dai tedeschi e nella stessa Germania. Vari processi erano stati intentati contro i criminali di guerra nazisti, militari e non,  le SS ed altri corpi speciali.  Io avevo  appena terminato le mie quattro missioni, in parte fallite, nel Nord ed ero tornato nella capitale. Una mattina, nello scorrere una rivista letteraria, trovai una lunga testimonianza, forse una delle prime, resa da uno dei pochi scampati a quegli orrori. La caratteristica di questo documento era che vi veniva ribaltata la visione comune che nei Lager gli aguzzini avevano sempre  avuto potere assoluto sulle vite degli internati:

   “Era un francese” riprese con voce sommessa. “Piccolo, sottile, malato, professore di storia dell’arte alla Sorbona. Nelle liste era già morto da un pezzo. Iniezione al cuore. Ma noi l’avevamo sempre salvato, avevamo falsificato le liste. Negli ultimi mesi lo si poteva fare. Ed ecco che il carnefice lo scoprì. Fra tutti gli assassini era costui il più spietato. Aveva un’alta carica nel Lager. Aveva inventato l’uso dei ganci da macellai. Lo sapevate?”

Tutti e due scossero la testa.

   “A quei ganci appendevano per il mento i condannati. Era una morte tremenda, forse la più tremenda di tutte. Là fummo costretti a portarlo. Era tranquillo e coraggioso, ma quando entrammo nel vasto macello mi guardò in faccia. Erano occhi che tutta la vita si erano imbevuti di bellezza, di quadri, di chiese, di Madonne. Erano ancora pieni di quelle visioni, tanto pieni che le visioni quasi coprivano la sua angoscia mortale. Ma io la vidi in fondo a quegli occhi, sotto quelle vedute. Io solo. Tutto stava già disgregandosi perché il fuoco delle artiglierie avanzava sempre più dappresso e alcuni di noi erano già segretamente armati. Anch’io. E quando portammo il francese sotto la trave coi ganci, dissi al carnefice di voltarsi. Egli si voltò, veloce come se una serpe l’avesse morso al tallone, e si trovò davanti la canna della mia pistola. S’irrigidì perché non comprese. Gli parve che tutto il mondo andasse in frantumi. Rimaneva però ancora una faccia malvagia, nefanda, anche così irrigidita, anzi peggio ancora che nella libera vita. Si volse e non vide altro che la fine. Nessuno mostrava pietà. Era soltanto la fine. Cadde quindi in ginocchio e chiese grazia e noi non avevamo immaginato che su quelle labbra potessero vivere ancora parole umane. Ascoltammo come avremmo ascoltato se un ragno si fosse messo a parlare dentro la tela, oppure uno scorpione o un basilisco. Ci fece orrore sentirlo parlare con voce umana. Ci parve che tutti quegli anni la figura umana non avesse subito scempio maggiore di quella voce. Avevamo creduto che dentro di lui vivesse una voce di demonio o di lupo, come nei quadri di Jeronimus Bosch. Il professore chiese grazia per lui, ma noi crollammo il capo. Gli altri volevano issarlo sul gancio, ma prima che potessero prenderlo io sparai. Avrei potuto sparargli nel cuore, sparai invece nel viso. Pensai forse che con un colpo al cuore poteva risorgere, perché nel suo corpo non c’era niente dove noi abbiamo il cuore, nient’altro che vuoto. La sua vita era tutta nel viso che avevamo veduto sorridere, molte, molte volte. E io sparai in quel passato sorriso. Egli cadde in avanti, ma per me non cessò di sorridere. Mi capite? Non cessò di sorridere. Era come se il suo sorriso fosse immortale, il male immortale, e mille spari non potevano spegnerlo. Era come se avessi sparato contro Sirio o contro la via Lattea. Gli altri lo trascinarono via e io li seguii con lo sguardo. Per nessuno ho previsto come per lui che sarebbe risorto e dopo risorto avrebbe ancora sorriso come sempre. Il francese mi strinse la mano, la sinistra, non la destra, e disse una cosa molto strana. Disse “Ceux qui restent, ce sont les pauvres.” Molto strano, perché era la verità. Una di quelle verità che l’uomo sa dire solo quando ha già deposto la forma terrena, l’angoscia, la speranza, l’odio e forse anche l’amore. Ce sont les pauvres.”

Ernst Weichart

di Maurizio Chiararia

(continua)

Print Friendly, PDF & Email